Fondazione Cdp, Francesca Sofia: «La ricerca scientifica è un investimento, non un costo». Bando da 1 milione

La direttrice generale: «Con il nostro bando da 1 milione agiamo in sinergia con il ministero della Salute sostenendo i progetti del Pnrr»

Francesca Sofia, direttrice generale di Fondazione Cdp
di Alessandra Camilletti
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Giovedì 14 Dicembre 2023, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 07:44

Effetto, presa, messa a terra. Vedere alla voce impatto.

«L’impatto è tema centrale alla filantropia, che in questo momento storico è sempre meno beneficenza e sempre più sostegno a iniziative in grado di creare un cambiamento positivo nel mondo. Dalla ricerca scientifica all’istruzione, all’inclusione sociale. Un cambiamento che ci porta a rivedere le modalità con cui selezioniamo i progetti e con cui decidiamo di investire le risorse. L’ammontare dell’investimento cresce al crescere dell’impatto generato», sottolinea Francesca Sofia, direttrice generale di Fondazione Cdp, biologa molecolare specializzata in neuroscienze, economia, management sanitario e gestione degli enti non-profit. Questione di giorni e la fondazione – nata nel 2020 con la mission dello sviluppo sociale, culturale, ambientale ed economico del Paese e presieduta dal presidente Cdp, Giovanni Gorno Tempini – assegnerà i fondi del primo bando per la ricerca scientifica.

Come si declina l’impatto nella ricerca?

«Cambia a seconda della prospettiva. Per lo scienziato l’impatto è quello delle pubblicazioni e dell’attrazione di risorse. Per il paziente che attende una terapia o il miglioramento delle proprie condizioni di salute è la possibilità di avere assistenza adeguata».

L’impatto è la motivazione alla base del bando emanato da Fondazione Cdp?

«È una delle motivazioni. La missione di Fondazione Cdp prevede il sostegno alla ricerca come attività portante in un Paese proiettato al futuro. Parliamo di ricerca scientifica a 360 gradi e con questo bando investiamo risorse in un momento in cui la ricerca sta ricevendo fondi ingenti dal Pnrr. Ci siamo voluti mettere in sinergia con il ministero della Salute, sostenere progetti per un periodo di tempo più lungo rispetto alla durata delle risorse del Pnrr, dando ad alcune idee eccellenti un po’ più spazio per essere realizzate».

Si sostengono progetti già finanziati dal Pnrr. Sempre un controsenso e invece no...

«Abbiamo messo a bando risorse per un milione di euro e finanzieremo 10-12 progetti. L’idea è garantire un piccolo chip che funzioni da abilitatore di progetti più grandi ma a cui manca quel quid necessario per essere portati avanti, per esempio l’ultimo anno di una borsa di dottorato. Siamo consapevoli che si tratta di risorse esigue rispetto alle ingenti somme del Pnrr, ma abbiamo speranza di poterle assegnare in maniera mirata e intelligente».

Collaborazione pubblico-privato: possiamo parlare di ecosistema?

«Assolutamente sì. La soluzione non può essere a carico di uno solo degli stakeholder, è impossibile. Quando parliamo di salute o di bisogni disattesi di intere comunità di pazienti spesso le soluzioni che arrivano sono frutto di una staffetta tra pubblico, enti non-profit, comunità di pazienti e industrie».

Qual è la sfida, anche guardando ai ricercatori italiani che pensano di trasferirsi all’estero o che all’estero sono già?

«Il potenziamento va fatto su persone e infrastrutture di ricerca.

La ricerca è frutto di attività intellettuale ma se non ci sono ambienti, attrezzature e tecnologie adeguate è difficile portarla a compimento».

Qual è il successo più grande della ricerca? Trovare la cura certo, ma nel complesso del processo?

«La ricerca è un’attività mossa da grande curiosità e spirito di scoperta. In ambito sanitario è chiaro che l’obiettivo è migliorare la salute delle persone, rispondere ai bisogni di cura e garantire a chi ne ha bisogno la soluzione terapeutica di cui necessita. Poi non è sempre la cura il risultato, ma anche il miglioramento della gestione della malattia. Pensate alla distrofia muscolare: oggi si diventa adulti e si può essere adulti attivi».

E qual è il problema maggiore?

«Sarebbe facile dire le risorse, ma per me è definire bene e in maniera trasparente gli obiettivi dei componenti dell’ecosistema. Trovare un obiettivo condiviso, realizzare il programma in ottica win-win per tutti coloro che partecipano al processo, dai pazienti all’industria che commercializza la terapia. Quando si elabora una strategia, si deve saperla gestire. Serve un buon management scientifico».

Ecco. Lei stessa è passata dalla ricerca “attiva” all’essere manager. Qual è stata la spinta? Forse la ricerca dell’impatto?

«Esattamente questo. Amo le scienze biomediche e della vita, ma non riuscivo a vivere chiusa in laboratorio, avevo bisogno di vedere le cose accadere rapidamente. Mi sono chiesta: come posso spendere la mia vita nella ricerca senza stare in laboratorio? Cosa serve? I fondi, il management, l’ecosistema».

Quale eredità ci ha lasciato la pandemia, nell’ottica della ricerca scientifica?

«Dovrebbe averci lasciato la cognizione chiara che la ricerca è un investimento, non un costo. Purtroppo temo che la ricerca in questo Paese sia stata vista, e per certi versi lo sia ancora, più come un costo che come un investimento, in termini economici una voce da stato patrimoniale più che da conto economico».

Qual è stata per lei la molla per diventare scienziata?

«Al quarto anno di Liceo classico, nello studiare biologia, arrivata alla replicazione del dna ho deciso di studiare biologia molecolare. È stato amore a prima vista. Una delle teorie più belle dell’impatto è quella del cambiamento, l’accettazione di una componente enorme di rischio, il coraggio di sperimentare. Anche il bando per certi versi è stato un rischio, ma se non sperimentiamo, se non andiamo a vedere se c’è del buono, come si fa?».

E del buono si è visto?

«Sono stati presentati 42 progetti, ne finanzieremo il 20%. Adotteremo la delibera il 21 dicembre dopo un approfondito processo di valutazione sulla base del modello dei National Institutes of Healt degli Stati Uniti».

Lei ha un progetto di ricerca del cuore?

«Qualcosa che appartiene alla mia esperienza precedente da giovane research manager in Fondazione Telethon, dove ho visto prosperare la terapia genica. In quel contesto ideale sono nati progetti che hanno curato bambini che avevano diagnosi paragonabili a condanne. Vedere che può accadere mi è rimasto nel cuore. E io penso che possa accadere per molti altri. Può essere una malattia o una situazione di svantaggio sociale: ma se una soluzione esiste, io faccio il possibile perché possa essere trovata».

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