Ansia e tristezza, c'è un interruttore per spegnere la memoria della paura

Uno studio dei neuroscienziati della Federico II e della Columbia University identifica un circuito neuronale che contribuisce alla formazione dei ricordi negativi

Ansia e tristezza, c'è un interruttore per spegnere la memoria della paura
di Maria Pirro
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Giovedì 12 Ottobre 2023, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 07:28

Una coppia in crisi: Clementine, decisa a far sparire tutte le tracce della tormentata storia d’amore, e Joel, che sembra d’accordo, fino a un certo punto.

Si rivolgono alla clinica Lacuna, specializzata nel selezionare i ricordi e, facendosi forza delle proprie debolezze, si buttano corpo e anima in un progetto impossibile: farsi togliere dalla testa le delusioni della vita, per non subirne i condizionamenti; mentre accade esattamente il contrario nella realtà. I traumi restano impressi, lasciano una “memoria della paura” a distanza persino di decenni. «Al punto che solo il richiamo a quelle sensazioni sgradevoli può paralizzarci letteralmente, un po’ come avviene nel mondo animale», dice Maria Concetta Miniaci, professore associato di Fisiologia nel dipartimento di Farmacia all’Università Federico II di Napoli, e coautrice della ricerca che ha inevitabili rimandi alle suggestioni di Se mi lasci ti cancello, il film cult di Michel Gondry, ma prende spunto innanzitutto dall’osservazione del comportamento di piccoli roditori.

L’INTUIZIONE

I cani della prateria, in particolare: appartengono alla specie dei roditori ma vengono chiamati così per il loro verso caratteristico simile al latrato. «Ce ne sono alcuni che fanno da sentinella al branco, emettendo gridolini differenti che gli altri animali imparano a riconoscere come segnale di pericolo (il predatore sta arrivando) o segnale di scampato pericolo (il predatore è andato via)», spiega David Sulzer, docente di neurobiologia nel dipartimento di Psichiatria alla Columbia University di New York, dove per settimane si è svolto l’esperimento sui topolini di laboratorio. Gli scienziati americani e italiani hanno associato un campanello a una leggera scossa elettrica. Poi hanno fatto sentire ai murini esclusivamente il suono, dimostrando che a quel punto bastava il tintinnio per spaventarli: «Provocando il rilascio di noradrenalina, misurato nel cervelletto con le fibre ottiche», sintetizza Miniaci. E aggiunge: «Usando sensori fluorescenti, abbiamo osservato che l’aumento dei livelli di questo neurotrasmettitore (implicato anche nei meccanismi di veglia e attenzione) è strettamente correlato alla reazione di “freezing”. In pratica, il campanello spinge gli animali a restare immobili davanti al pericolo, pur se semplicemente paventato».

Il meccanismo alla base di questa reazione è illustrato per la prima volta nel lavoro scientifico pubblicato su Nature Communications dai ricercatori dei due Atenei. «Abbiamo identificato il circuito nervoso tra il locus coeruleus e il cervelletto che si attiva in queste circostanze, e si può bloccare». Come? «Mediante tecniche di optogenetica e chemogenetica che vanno a ridurre i livelli di noradrenalina “spegnendo” il segnale che predice una minaccia e guida i nostri comportamenti». Con possibili risvolti clinici: «Nei disturbi d’ansia e da stress post-traumatico, il ricordo negativo non riesce a estinguersi, causando un malessere permanente che così potrebbe essere risolto», afferma Miniaci al lavoro con Sulzer, e con Adrien Stanley, oramai ex dottorando del Bronx che ha svolto la sua tesi sull’argomento e oggi è all’Allen Institute for Neural Dynamics di Seattle. Si può, dunque, tentare di cancellare l’eco di tristezze, come nel film per Clementine e Joel? «Altre ricerche hanno dimostrato che i topolini, se sentono lo stesso suono più volte, ma non ricevono più la scossa, formano con il passare del tempo un nuovo ricordo che sopprime il precedente: imparano cioè che il campanello non è più collegato a una situazione di pericolo». Per gli esseri umani, si tenta di accelerare il processo di rimozione con la psicoterapia: facendo rivivere al paziente il trauma, come un incidente stradale o una violenza sessuale, in un contesto sicuro, in modo da superarlo definitivamente. Ma è chiaro che può non bastare. «Il nostro obiettivo è quello di arrivare a mettere a punto farmaci mirati, da usare all’occorrenza, nei casi più gravi: alcuni studi pilota hanno provato che la somministrazione di specifici bloccanti noradrenergici influisce sulla reazione di paura, ma le indagini vanno approfondite», afferma Miniaci.

GLI ULTERIORI PASSI

E altre prospettive si intravedono per patologie neurodegenerative come l’Alzheimer e il morbo di Parkinson, al momento senza cura. «Come si sa, i danni al locus coeruleus contribuiscono al declino cognitivo fino probabilmente a determinare l’incapacità di controllare i propri impulsi: individuarli in anticipo, potrebbe favorire la diagnosi precoce decisiva per tentare di rallentare la progressione della malattia». Al riguardo una ricerca è finanziata dal Pnrr con la Federico II come Università responsabile; mentre la Columbia University si sta concentrando sull’esame dei segnali opposti trasmessi dalle cellule nervose, quelli che danno sicurezza e riguardano altre misteriose zone del cervello. A giudicare dai risultati sperimentali ottenuti dal premio Nobel Eric Kandel, le aree cerebrali interessate sono infatti diverse da quelle che si attivano in caso di pericolo. «Ce n’è una specifica, chiamata striato, che regola questa risposta e risulta invece compromessa nel morbo di Parkinson», anticipa Sulzer.

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