Il tempio ebraico degli emancipati

Il tempio ebraico degli emancipati
di Fabio Isman
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Giovedì 27 Ottobre 2016, 22:31
La sinagoga è stata edificata in 20 anni, un Papa l'ha visitata il 17 gennaio 2016 per la terza volta in trent'anni

LA STORIA
Il 17 gennaio 2016, papa Francesco è stato il terzo pontefice a recarsi in una sinagoga romana, dopo la storica visita di Giovanni Paolo II nel 1986, e quella di Benedetto XVI sei anni or sono; e dopo il «gesto rivoluzionario» di Giovanni XXIII che, un sabato del 1959, vi fa fermare l'automobile, per benedire chi ne sta uscendo. Allora, vale forse la pena di ricordare come è sorto il Tempio maggiore dell'Urbe; che cosa rappresenta e contiene; le problematiche che ne hanno accompagnato la nascita. Perché fu assai meno semplice di quanto si potrebbe credere: l'iter occupò vent'anni, e non mancarono le polemiche su un edificio tra i più grandi del genere in Europa, che sorge, finalmente, nel 1904, simbolo delle ritrovate libertà ed eguaglianza.

I PRECEDENTI
Intanto, il luogo: ai limiti del Ghetto voluto da Paolo V Carafa nel 1555, il secondo nella penisola dopo quello di Venezia (1516), era destinato, fino al 1882, a ospitare il Palazzo di giustizia. Le porte del «serraglio degli ebrei» erano già scomparse: provvisoriamente aperte nel 1798 dalla Repubblica Romana (il giorno dopo, Pio VI lascia l'Urbe; e l'indomani, dal Quirinale, il comandante francese proclama la parità dei diritti degli ebrei: concede la cittadinanza) e da Pio IX la sera di Pesach (la Pasqua ebraica) del 1848, sono abolite nel 1870, quando la città diventa la Capitale. A comandare i cannoni che aprono la breccia a Porta Pia, un ebreo: Pio IX aveva preventivamente scomunicato chi avesse osato. Ma l'emancipazione della più antica comunità della diaspora al mondo (sul Tevere da almeno due secoli avanti Cristo), la maggiore in Italia, accade con ritardo rispetto a altri luoghi della penisola: Carlo Alberto di Savoia la concede nel 1948, ma a Roma occorre aspettare. E il «ghetto liberato» ha vita effimera: con il pretesto della salute e del risanamento, è smantellato in fretta dal 1885. Dal 1888 la Comunità si è accordata con il Comune per abbattere le cinque Scole, in cambio di un terreno. Ma un incendio nel 1883 distrugge la maggiore sinagoga, e affretta i tempi.

LE DIATRIBE
Non tutti gli ebrei romani erano d'accordo per ricollocarla nel ghetto: chi ne voleva anche una nelle zone «alte» della città; chi, il rabbino Laudadio Fano, temeva di «mantenere intatta la triste eredità del passato, con la sequela di ridicoli pregiudizi e viete abitudini». In un referendum, 718 sì su appena 733 votanti. Ai quartieri «alti» va un lascito di 220 mila lire di Grazia Pontecorvo, vedova di Salvatore Di Castro, e sorge l'oratorio di via Balbo. La nuova sinagoga completa la sequenza di quelle ottocentesche in Italia (Torino, Milano, Firenze, Trieste). Quadrangolare (a croce greca, cupola in stile babilonese) è di Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, allievo di Guglielmo Calderini, l'autore del «Palazzaccio»: stile greco, ma «influenzato da motivi asiatici e assiri», spiegano i progettisti. Come le altre, guarda a Est, verso Gerusalemme. L'interno è dipinto (senza figure viventi, come prescritto) dai maggiori autori umbri: Domenico Bruschi e Annibale Brugnoli. Di Bruschi opere all'Hotel Majestic e ai Santi Apostoli; del secondo, sono la volta dell'Opera, due Sale savoiarde al Quirinale, altro alla Rinascente; pagati 24.753 lire. Vetri di Cesare Picchiarini le vetrate (come quelli alla Casa delle Civette a Villa Torlonia: cartoni di Duilio Cambellotti). Il Tempio ingloba arredi delle Cinque Scole distrutte: il seggio del rabbino capo era di quella Siciliana (1586). E il resto che si è salvato è nei sotterranei: nel museo allestito da Daniela Di Castro e ora diretto dalla sorella Alessandra.

RE VITTORIO
Vi si celebra, rivisto, il Rito italiano: né ashkenazita (dell'Ovest), né sefardita (spagnolo); gli shammashim, gli inservienti, sono ancora in cilindro; c'è anche un organo, sempre malvisto dagli ortodossi.
Non piacque a tutti: ci fu anche chi scrisse di «un'enorme gabbia d'uccelli». Prima di aprire i battenti, lo visita Vittorio Emanuele III in segno di rispetto e ringraziamento per l'apporto degli ebrei alla nascita della nazione e al Risorgimento; non si immaginava, certo, che 34 anni più tardi avrebbe firmato le più infami leggi razziste di tutto l'Occidente.
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