Municipalizzate, profondo rosso: pagano i romani La mappa
Come mai? Il desolante braccio di ferro, finito anche in procura, tra il vecchio Cda e il Campidoglio partiva dai 18 milioni di euro di credito di Ama nei confronti di Roma Capitale per i servizi cimiteriali. Dopo una guerra spietata, appare scontato che la nuova gestione di Ama accetti di cancellare quel credito. A queste si aggiungono altre voci a rischio: dal ridimensionamento del valore della Tari pre 2010 ad alcuni contenziosi in corso. Per questo si ipotizza un rosso di 40 milioni di euro, anche se i più pessimisti prevedono una cifra molto più alta, almeno il doppio. Con questa premessa, l’altro bilancio consuntivo, 2018, arriverebbe a uno squilibrio di 60 milioni: va svalutato il valore del Tmb di via Salaria bruciato. Ama ha 190 milioni di euro di indebitamento con le banche, ma sulla carta non dovrebbe essere protagonista di questa tempesta di difficoltà: come previsto dalla legge, la Tari copre completamente i costi. In altri termini: tanto spende per i servizi offerti a Roma Capitale, tanto la Tari copre quelle spese (nel 2017 eravamo a 735 milioni di euro).
DEBOLE
Eppure, l’azienda ha una debolezza strutturale, legata all’indebitamento con le banche, ma anche a un organico con un’età media molto alta, un tasso di assenze sopra il 15 per cento. I dirigenti sono ormai una ventina, con molte competenze andate in pensione. La gestione Raggi ha alimentato di fatto l’incertezza. Premessa: Ama non possiede più impianti, si occupa solo di pulire e raccogliere (male), ma dopo l’incendio del Tmb di via Salaria, ha un unico stabilimento di trattamento vecchio e malconcio a Rocca Cencia. Dipende all’80 per cento per lo smaltimento dai privati e dalle multiutility delle altre regioni, non gestisce la parte che può fare utili del ciclo dei rifiuti (non solo inceneritori ma anche impianti di compostaggio per la differenziata). Ma è difficile ripensare il futuro di un’azienda se si cambiano i vertici a ritmo ubriacante, sempre con scontri, litigi, aule giudiziarie. La Raggi diventa sindaco a metà 2016, eredita Daniele Fortini come presidente di Ama. Questi se na va quasi subito e ci può stare visto che non godeva della fiducia della sindaca. Ma da quel momento comincia uno scatenato balletto: dalla Lombardia arriva con squilli di trombe Alessandro Solidoro, presentato come un formidabile manager, ma a settembre già saluta tutti; viene nominata presidente Antonella Giglio, durerà pochi mesi e il rapporto finirà con un contenzioso; da Voghera arriva Stefano Bina, nuovo direttore generale, presentato come l’innovatore che bonificherà la palude dei dirigenti romana: a fine 2017 c’è già l’addio, un consigliere comunale M5S con la solita classe dice «non ne sentiremo la mancanza». Arriva come presidente e ad Lorenzo Bagnacani dall’Emilia: per la Raggi è l’uomo della provvidenza, ma il 18 febbraio 2019 lo caccia, dicendo - ancora sprezzante perché la colpa è sempre degli altri - «male la raccolta dei rifiuti». La Raggi affida l’azienda a Bagatti (direttore esecutivo) e i risultati li vediamo per strada. La settimana scorsa nuova nomina, la presidente è Luisa Melara, avvocato, l’ad Paolo Longoni, commercialista. La Raggi in tre anni ha cambiato sette manager. Difficile in questo modo risanare o rilanciare l’Ama.
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