Tullio Pericoli e Paesaggi: «La luce delle mie radici»

Tullio Pericoli
di Piero Santonastaso
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Mercoledì 30 Ottobre 2013, 17:48 - Ultimo aggiornamento: 1 Novembre, 14:16
Non mi sposto, viaggio dipingendo e disegnando. Tullio Pericoli, pittore e disegnatore, 77 anni appena compiuti, si definisce un viaggiatore sedentario. Adelphi ha da poco raccolto in volume 393 suoi paesaggi datati 1971-2013 (I paesaggi, 488 pagine, 30,60 euro) e lui dal suo studio milanese parla del volume che si apre con la dedica “alla luce, ai colori, alla natura e alle forme della mia terra natale”. Cioè il Piceno, Colli del Tronto - che Giobbe Covatta ha felicemente ribattezzato Colliwood - e soprattutto Ascoli, la città in cui, proprio nella redazione del Messaggero retta da Carlo Paci, mosse alla fine degli anni Cinquanta i primi passi come disegnatore per quotidiani e riviste. Ritratti, la fortunata serie Tutti da Fulvia il sabato sera insieme allo scomparso Emanuele Pirella, e soprattutto paesaggi.

Perché tanta attenzione per il paesaggio, segnatamente per quello delle Marche?

«Diciamo che i miei paesaggi hanno un accento marchigiano, ma non è stata una scelta. Ho avuto negli occhi e nella mente quel paesaggio perché ci sono nato, perché è la prima cosa che si percepisce quando siamo ancora nel ventre materno, con le luci e i rumori. Appena apriamo gli occhi al mondo vediamo la luce del volto di nostra madre e quella del paesaggio che ci circonda. Un grande insieme di suoni, visioni, odori e sapori che si mantengono nella memoria».

Lei da mezzo secolo si è trasferito a Milano che, ne converrà, non è il massimo del paesaggio.

«Convivo con questa città abbastanza bene, all’inizio direi anche molto bene, nonostante sia stato un incontro molto traumatico proprio dal punto di vista paesaggistico. Milano in confronto alle Marche è un salto vertiginoso, soprattutto se parliamo dei primi anni Sessanta. Era una città dai colori e dalle forme poco amichevoli, ma al tempo stesso assetata di idee, che accoglieva tutti. È per questo che qui ho messo giù un’altra parte delle mie radici».

Torniamo a Ascoli Piceno, a un elemento che ritroviamo persino nella serie L’isola di Robinson: il Monte dell’Ascensione.

«Quella montagna è l’immagine protettiva della città, quasi avesse delle braccia. Ed è una delle rare montagne che, spostandosi, cambia continuamente profilo. Salite in cima e guardate il panorama dei calanchi, sembra di trovarsi in luoghi marziani».

La Treccani scrive che lei è stato influenzato da Saul Steinberg.

«Non è esatto, nel mio disegno non si trova granché dello stile di colui che resta uno dei tre o quattro grandi del secolo scorso. Ho avuto un rapporto personale con Saul, cercando di capire e scardinare i suoi metodi, alla fine l’ho derubato mentalmente».

A proposito di furti: negli anni Ottanta mise insieme la serie Rubare a Klee.

«Per alcuni anni ho cercato di scoprire il suo metodo, vedere cosa c’era sotto, come era costruita la sua opera. Una trentina di quelle opere finirono in mostra a Milano con il titolo Furti ad arte. Nel catalogo dialogavo con Italo Calvino e insieme arrivavamo a concludere che l’arte viene sempre da altra arte».

Parlando di arte e artisti, in un’intervista a Gigi Vaccari sosteneva che “in questo mestiere manca il contatto diretto con il pubblico”. Perché?

«Gli attori, i musicisti, gli scrittori hanno una linea diretta con la gente. Il rapporto del pittore è invece più contorto. Con un disegno per un giornale so a chi mi rivolgo, ma un quadro non so a chi sia destinato. Così, a volte mi chiedo perché mi ritrovo in studio a lavorare e a cosa servirà».

Nonostante tutto, però, il sistema dell’arte è florido, anche troppo.

«C’è un giro di denaro vorticoso, che non fa bene alla libertà creativa dell’artista. Si fanno ancora grandi affari, ma non seguo molto queste cose».

Riprendiamo il discorso paesaggio. Qual è stata l’epoca d’oro?

«Il periodo dell’impressionismo, direi. Il paesaggio era, ed è, il piacere del pittore. Ha la sua origine nel Rinascimento. Soprattutto in Olanda il paesaggio entrava dalla finestra, era come se l’artista si arricchisse di una sorta di felicità».

La stessa felicità che, tra le varie tecniche usate, la porta a “pettinare” i suoi quadri?

«È un po’ uno speculare sull’intensità dell’inconscio della terra, come per le mie sezioni di paesaggio. E tra i miei attrezzi qualche pezzetto di pettine c’è...».

Il suo ultimo libro è inframmezzato da brevi testi di scrittori, poeti, pensatori, artisti ma, nei ringraziamenti rende onore soprattutto agli autori “che ho letto e dimenticato”. Può spiegare?

«Io non leggo con metodo e nel corso degli anni le opere si sedimentano dentro di me. L’autore dimenticato è il più importante perché nella lettura ha stimolato la mia fantasia, provocando la mia distrazione attiva. A volte arrivo alla fine di un libro sentendomi arricchito, senza sapere bene di cosa. È un po’ il meccanismo per cui riponiamo le nostre cose in soffitta e ogni tanto andiamo a visitare i tesori accumulati nel tempo. Una meraviglia».

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