Intervista a Pierangelo Albini: «Il rendimento può migliorare, ma solo con verifiche sui risultati»

Intervista a Pierangelo Albini: «Il rendimento può migliorare, ma solo con verifiche sui risultati»
di Lorenzo De Cicco
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Mercoledì 11 Luglio 2018, 09:23
Se tutto va bene, dice Pierangelo Albini, direttore dell'area Lavoro, Welfare e Capitale Umano di Confindustria, la formula è «win-win». Cioè vince il datore di lavoro e vince il dipendente. Si può abdicare alla costante presenza in ufficio, insomma, a condizione che si mettano al centro i risultati, con controlli sugli obiettivi raggiunti.

Il Campidoglio vuole far debuttare il telelavoro tra i dipendenti comunali. Può servire a disincagliare una macchina burocratica impaludata da anni?
«L'esperienza nel settore privato finora ha dimostrato che con lo smart working - più propriamente che telelavoro - si possono ottenere risultati molto positivi, perché in genere il rendimento di chi lavora da casa è soddisfacente. Il primo settore dove si è diffuso a macchia d'olio è stato quello delle banche, tra i dipendenti del back office, insomma quelli per cui non era strettamente necessaria la presenza in ufficio. Ma ormai questa pratica è messa in atto in molte imprese delle telecomunicazioni o tecnologicamente avanzate».

E funziona?
«Ricordo il caso di una dirigente di una multinazionale che avviò la sperimentazione in segreto, senza informare l'ufficio del Personale. Dopo qualche tempo mostrò i risultati dei dipendenti, significativamente migliorati, e solo allora svelò alle Risorse umane la novità: lavoravano tutti da casa».

I vantaggi quali sono?
«Se l'operazione riesce, grande soddisfazione delle imprese, perché i livelli di rendimento dei lavoratori sono notevoli, e grande soddisfazione dei dipendenti che hanno più tempo libero e possono evitare, per esempio, di passare un'ora nel traffico la mattina. Ovviamente quello che conta, per l'azienda, è il risultato».

Ecco appunto, l'obiettivo, al di là del benessere dei propri dipendenti, per un'amministrazione pubblica, è il miglioramento dei servizi.
«Certo, con lo smart working cambia tutta l'impostazione, perché la misurazione del tempo di lavoro non conta più di tanto, contano i risultati. È una prestazione considerata quindi di qualità. In un certo senso ci si avvicina al lavoro autonomo, ma la legge stabilisce la piena parità di trattamento tra chi lavora da casa rispetto a chi lavora in ufficio».

Nel settore privato, pare di capire, l'esperimento spesso è andato bene. Quali rischi potrebbero esserci trapiantando questa pratica nel settore pubblico, dove certi malcostumi, come l'assenteismo, sono più diffusi, forse addirittura tollerati, talvolta. E i furbetti del cartellino abbondano...
«Ecco, con lo smart working il meccanismo del cartellino perde valore, non esiste più, perché si valuta prevalentemente il risultato della prestazione. Non vale più tanto la logica ho strisciato il badge oppure no. Contano gli obiettivi raggiunti. Poi magari c'è gente che passa l'orario di lavoro in ufficio e fa poco o niente uguale. Per questo conta il risultato».

Parliamo dei controlli. Come si verifica la presenza dei lavoratori nella postazione di casa?
«I controlli si possono svolgere in tanti modi, con videotelefonate o chiamate tradizionali, in orari prestabiliti, perché poi c'è anche il diritto alla disconnessione. Ormai si fanno anche i processi penali in teletrasmissione, si può benissimo lavorare così. Al datore di lavoro interessa che il compito venga svolto bene».
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