Marino: io trattato come Provenzano, lunedì mi dimetto

Marino: io trattato come Provenzano, lunedì mi dimetto
di Simone Canettieri
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Domenica 11 Ottobre 2015, 03:47 - Ultimo aggiornamento: 09:55
Sceglie la sala degli Arazzi per lasciare ai mini sindaci della Capitale il suo testamento politico e amministrativo. Convoca i 14 presidenti dei municipi - e non i consiglieri del Pd e Sel che «mi hanno fermato» - per annunciare che lunedì si dimetterà senza ripensamenti e non passerà nemmeno dall'Aula Giulio Cesare: «Basta sberleffi, la mia maggioranza ha già deciso. Di cosa stiamo parlando?». Ignazio Marino confida a quelli che considera «fratelli e sorelle» di essere «veramente avvilito: mi stanno trattando come Provenzano, mia moglie non può più uscire di casa, ma ve ne rendete conto?». La riunione dura due ore. Il sindaco ha l'umore altalenante, passa dalle battute ad amare considerazioni. Ma lascia cadere anche questa frase: «Quando tra poco il mio percorso sarà terminato dirò quello che penso di questa vicenda». Intanto, lancia un allarme, che sembra molto ”dopo di me il diluvio”: «Attenti, quando non ci sarò più io state molto uniti, potrebbero riaprire addirittura Malagrotta».



ULTIMI PROGETTI

Parla a ruota libera. Dice che in questi venti giorni, che scatteranno lunedì, farà di tutto per chiudere «undici pratiche, a partire dall'allarme servizi sociali nei quartieri». E se gli assessori come Stefano Esposito (Trasporti), non andranno in giunta, prenderà lui le deleghe. Vuole avere una lettura «responsabile» di queste giorni, anche se quando gli chiedono degli scontrini ammette di non avere una lettura «lucida»: «Non so cosa ci sia dietro, sembra di nuovo la storia della Panda Rossa. Nel mio caso sono stati allegati addirittura i menù delle cene, per curiosità ho provato a cercare i giustificativi dei miei predecessori, Alemanno, Veltroni e Rutelli, e non ce n'è traccia. Mi sono fatto un'idea ben chiara».



L'amarezza è venata dal complottismo perché «in questo cavolo di Campidoglio è tutto difficile: anche riuscire a mettere in fila le ricevute». Allo stesso tempo, però, sembra aver già elaborato il lutto. E si permette un paio di battute sul Giubileo: «Se fossi rimasto sindaco in caso di problemi di apertura della Porta Santa l'otto dicembre mi avrebbe incolpato anche di quella. E' colpa di Marino, no? Basta vedere cosa è successo con il funerale dei Casamonica».



LO SFOGO

La platea lo ascolta, tutti ammettono che ora sarà difficile andare avanti dal punto di vista amministrativo. Nessuno gli consiglia di forzare la mano, di arrivare allo show-down in Aula, come invece gira per tutto il pomeriggio: «Non voglio più andare in Consiglio, è tutto inutile. Non mi faccio umiliare da chi si mette a fare il circo, come avvenuto per la Panda Rossa». E allora ecco un altro pensiero che passa nella testa di Marino: «Se fossi un figlio di buona donna non mi occuperei delle opere sbloccate del Giubileo perché tanto non sarò io a inaugurarle. Invece il mio senso di responsabilità mi dice altro». E' un sabato piovoso. Il sindaco è stanco e così si permette uno strappo a un tic diventato oggetto anche questo di ricostruzioni e letteratura: annuncia «di non voler prendere appunti» nelle famose agendine. Ascolterà le richieste dei mini-sindaci dando loro appuntamento tra 72 ore. E' solo. Distante da alcuni assessori pronti a sfiduciarlo, lontano mille miglia da quella che era la sua maggioranza: «Non penso che i consiglieri vogliano approvare più atti: d'altronde Pd e Sel hanno dato ordini chiari». In due ore di chiacchierata, molto umana e poco istituzionale, spesso ricorrerà all'espressione «i partiti» per indicare quelle forze che lo hanno fermato, bucandogli le ruote della bici. Si lamenta, si sfoga («Voi mi capite) cambia diversi toni della voce. Si fa serio quando ammette una vecchia litania: «C'era una volontà precisa di farmi fuori da subito». Ma dei mandanti della congiura non fa nomi. «Parlerò al momento opportuno». Magari in libreria.



Intanto annuncia che durante l'ultimo contestato viaggio negli Usa una cosa sicura l'ha portata a casa insieme alle politiche: ha stretto un accordo con il Moma per ospitare una mostra alle scuderie del Quirinale. Quando? Primavera 2016, «quanto tutto sarà finito: ma mi sembrava un'occasione importante per la città. Ma so che mi prenderanno in giro anche per questo». Insieme a lui c'è Roberto Tricarico, il suo braccio destro, che gli fa da spalla quando i mini sindaci chiedono delucidazioni tecniche sulle procedure in questa fase così convulsa. E' un via vai di emozioni che smentiscono la fama del cinico chirurgo. Anche se non lascia mai intravedere possibili colpi di coda né sembra avere voglia di fare polemiche: non a caso ha disdetto anche l'ospitata a Che tempo che fa. Ripete che è stanco della macchietta caricaturale di cui è prigioniero dai social agli imitatori: «Basta sberleffi». E ce l'ha anche con le scene «da circo» che si ripetono ogni volta a Roma con i contestatori organizzati. Poi un passaggio personale: «Da quando sono stato minacciato, vivo con tre auto blindate e sette uomini di scorta. La mia famiglia ne soffre, io non sono un politico, anche andare in un ristorante è un problema». Nella Sala degli Arazzi c'è chi ride un po'. Forse è un sottile sberleffo.