Favori al pentito, la Cassazione annulla
l'arresto di due carabinieri di Rieti

Favori al pentito, la Cassazione annulla l'arresto di due carabinieri di Rieti
di Massimo Cavoli
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Sabato 28 Ottobre 2017, 10:40 - Ultimo aggiornamento: 10:48
RIETI - Colpo di spugna della Cassazione sulla vicenda dei due carabinieri in servizio presso il comando gruppo di Rieti finiti agli arresti domiciliari nei mesi scorsi con l’accusa di essere entrati abusivamente nel sistema informatico per fornire notizie a un pentito di mafia, affidato alla loro protezione. La quinta sezione ha annullato i provvedimenti restrittivi e, con essi, anche la sospensione dal servizio per un anno che era stata inflitta ai due militari, Enrico Abbina e Domenico Tagliente, provvedimento, quest’ultimo, che aveva colpito anche un terzo carabiniere, Diego Pistelli, rimasto a piede libero. I giudici hanno accolto il ricorso dell’avvocato difensore Alberto Patarini e ordinato la restituzione degli atti al tribunale del Riesame di Roma per una completa rivisitazione dell’intera vicenda, anche sotto il profilo dei gravi indizi di colpevolezza.

In precedenza, lo stesso Riesame aveva disposto la remissione in libertà di Abbina e Tagliente perché non ricorrevano gli estremi per la custodia cautelare, rilevati invece dal giudice delle indagini preliminari di Roma, Maurizio Arcuri, sostanziati nell'accusa di aver favorito Carmelo Bisognano, un pentito appartenente a un clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, trasferito a Rieti dopo le rivelazioni fatte alla magistratura siciliana sull’attività dei suoi complici. Bisognano, a sua volta, era finito invece direttamente in carcere, a Rebibbia.

Secondo l’indagine, i tre uomini dell’Arma assegnati alla protezione del boss, avevano consultato più volte il sistema informatico per identificare, attraverso le targhe delle auto, chi frequentava l’ex compagna di Bisognano e, in particolare, la loro figlia. Accessi per i quali i carabinieri non hanno conseguito alcun vantaggio personale nè altre utilità, come accertato dalle indagini della procura, ma giustificati per ragioni legate alla sicurezza del collaboratore di giustizia chiamato, periodicamente, a recarsi in Sicilia per partecipare ai processi in veste di testimone. L’indagine era stata avviata nel 2016 dalla procura antimafia di Messina – fascicolo poi trasferito per competenza a Rieti dove viveva il pentito - che aveva indagato a piede libero i militari, contestandogli di avere avuto con il pentito “un comportamento troppo confidenziale”, ma senza rilevare nei loro confronti elementi di gravità tale da giustificarne l’arresto. E, comunque, come ribadito dall’avvocato Patarini, si era trattato di azioni caratterizzate da assoluta buona fede e non certo finalizzate a favorire Bisognano, venendo meno ai propri doveri.
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