Renzi: non è voto di protesta e mi tengo il doppio incarico

Renzi: non è voto di protesta e mi tengo il doppio incarico
di Alberto Gentili
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Martedì 21 Giugno 2016, 08:31 - Ultimo aggiornamento: 09:18
ROMA «Dimettermi? Non ci penso neppure. Cambiare l'Italicum? Non fatemi ridere». Matteo Renzi, dopo la batosta di Roma e soprattutto di Torino, non batte in ritirata. Tantomeno apre a quella parte della minoranza Pd che invoca la rinuncia al doppio incarico e sostanziali ritocchi alla legge elettorale. Il premier-segretario piuttosto contrattacca, torna a vestire i panni del rottamatore come ha fatto capire nella lunga notte di domenica: «Bisogna innovare, innovare, innovare. Perché dietro ai risultati di queste elezioni non ci sono la protesta, la rabbia, il populismo. C'è la voglia di cambiamento. Ha vinto chi ha saputo interpretare meglio l'ansia di cambiare». E, in nome del fair play, dell'«onestà di dire che ho perso quando ho perso», Renzi cita Virginia Raggi e s'inchina alla vittoria dei grillini: «Il successo dei Cinquestelle è netto e indiscutibile, come è innegabile che questo voto abbia anche una valenza nazionale e non solo territoriale».

L'occasione per parlare alla stampa è data dall'incontro con lo chef campione del mondo Massimo Bottura. Nella sala dei galeoni, al primo piano di palazzo Chigi, Renzi si presenta ostentatamente allegro e festoso. Scherza. Fa battute. Si guarda bene però dall'entrare nel dettaglio delle richieste di Bersani & C. Rinvia la resa dei conti alla riunione della Direzione anticipata a venerdì: «Se ho fatto bene o male? Ne discuteremo in modo vero, franco e sincero tra quattro giorni. Nessuno deve drammatizzare il voto dei ballottaggi, ma nessuno deve minimizzare. E poi la Direzione si farà il giorno di San Giovanni e a Firenze si dice: San Giovanni non vuole inganni. Sarà un giorno meraviglioso...».

Insomma, chi pensava di ritrovarsi davanti a un Renzi mogio e depresso resta deluso. La grave sconfitta di Piero Fassino a Torino, la valanga di voti con cui la grillina Raggi ha seppellito Roberto Giachetti, gli 11 Comuni capoluogo su 19 persi rispetto al 2011, spingono Renzi a tornare «alle origini». Allo schema rottamatorio del 2014, quando alle europee incassò il 40,8%: «La gente preferisce il nuovo all'usato sicuro. E non solo con i candidati grillini. Pure noi a Varese e a Caserta, ma anche a Milano, siamo riusciti a vincere puntando su candidati innovativi».
Come dire: non importa il colore della maglia del sindaco, ma il suo tasso di novità. E qui, Renzi, si regala una metafora gastronomica citando lo chef Bottura: «A me emozionano sempre le lasagne della nonna e continuano ad emozionarmi. Ad altri un po' meno. Ma il punto chiaro è che dobbiamo come Pd riflettere per dare una lettura non banale al voto. Bisogna coniugare i valori della nostra comunità con la capacità di aprirsi al nuovo senza scadere nel nuovismo».

Il premier, che potrebbe rottamare anche qualche renziano doc attualmente in posizioni chiave nel partito, non è neppure sfiorato dal sospetto (per la minoranza e l'opposizione è una certezza) che il voto di domenica sia anche contro di lui. Non teme che la micidiale (per il Pd) saldatura tra grillini e destra, quello che l'Istituto Cattaneo definisce partito del tutti tranne Renzi, possa ripresentarsi al referendum d'ottobre. «Anche perché il solo pensarlo», dice uno dei suoi, «vorrebbe dire andare al patibolo, visto che fra tre mesi ci giochiamo l'osso del collo».

LA NUOVA STRATEGIA
In vista della madre di tutte le battaglie, Renzi - come ha spiegato in Consiglio dei ministri - è comunque deciso a rivedere la strategia. Meno personalizzazione dello scontro referendario. E comunicazione concentrata su posti (da senatore) che i politici perderanno, sul risparmio derivante dal taglio degli stipendi della Casta, sulla semplificazione legislativa e la stabilità. Le novità della riforma Boschi, appunto. «Il nuovo contro il vecchio sistema difeso dal fronte del no. La novità contro la conservazione. Il referendum saprà intercettare la voglia di cambiamento che attraversa il Paese», è la scommessa del premier.

L'altra è provare a ricompattare il partito in vista di ottobre: «Non sono mica tutti come Bersani e D'Alema che vogliono farci perdere al referendum per cacciare Matteo», dice un renziano di rango, «ci sono anche persone come Cuperlo che sanno essere leali. Ecco, dobbiamo partire da questi». Gli altri, in nome del rinnovamento, «non verranno certamente ricandidati alle elezioni del 2018». Più chiaro di così... E guai a parlare di rinuncia al doppio incarico: «Senza il controllo diretto del partito, il governo andrebbe a casa in qualche mese». L'esperienza di Enrico Letta docet.