I cattivi esempi/ Studiare l’antipolitica per rifondare la politica

di Sebastiano Maffettone
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Giovedì 13 Ottobre 2016, 00:05
Nella nuova serie televisiva West-World, tratta da uno script di Michael Crichton, i protagonisti sono rigidamente divisi in due categorie: i residenti e gli ospiti. Solo contatti superficiali sono possibili tra i membri delle due categorie, che non si incontreranno se non all’infinito. Più o meno la stessa divisione netta e incomunicabilità profonda divide agli occhi dei fautori dell’antipolitica il ceto politico dalla società civile. Per costoro, che criticano tutte le forme rituali della politica condivisa, la classe politica è infatti corrotta e incapace, se non addirittura spregevole.

La società civile è invece efficiente e austera, forse anche ammirevole. Personalmente, nutro una convinta sfiducia in una distinzione così netta. Mi sembra impossibile che, nello stesso Paese - diciamo l’Italia - vivano fianco a fianco due razze e tipologie tanto diverse tra loro. Corrisponde forse al desiderio di vedere tutto in bianco o nero come in una favola, ma di certo non alla realtà. Se poi si aggiunge che in democrazia bene o male è la società civile che elegge il ceto politico, il moralismo populista dell’antipolitica militante appare ancora più assurdo.

Concesso quanto si deve alla verità, ci si dovrà pur chiedere come mai tante persone, spesso di buon senso e con rette intenzioni, diano il loro consenso all’antipolitica. Lo si può constatare in tutto l’Occidente come mostra l’attualità di Paesi leader, dall’Inghilterra del dopo-Brexit agli Stati Uniti di Donald Trump.

Scontato che il motivo principale del successo sia l’inefficienza della politica tradizionale, bisogna domandarsi se sotto l’antipolitica - al di là dei difetti evidenti, di cui si è in parte detto - ci sia qualcosa di utile per la comunità. Non è facile sapere dove si cela tale utilità sociale, ma se dovessi dirlo in una sola frase direi nella richiesta di “un parziale ritiro della politica in nome delle competenze settoriali”.

Così presentata, la tesi rischia di confondere ancora di più le idee invece di chiarirle. Per evitare un esito del genere, parto dall’assunto che la complessità crescente della società attuale rende difficile se non impossibile al ceto politico comprendere a fondo molti dei problemi specifici sui quali pure deve legiferare. Con quali strumenti il malcapitato deputato potrà capire le esigenze che derivano dall’operato di Marchionne, dallo stato attuale del cinema italiano o dai bisogni urgenti del sistema sanitario? Eppure, capendo o non capendo, dovrà alla fine di un processo più o meno virtuoso legiferare in proposito. Sto sostenendo che gli effetti non prevedibili dell’antipolitica possano dare risposta a domande di questo tipo.

Da notare, che la risposta in questione non può consistere nel diffondersi della deliberazione via web. Quest’ultima ha, come è evidente, un effetto positivo in termini di partecipazione, nel senso che più persone e più società civile si accostano al problema politico su cui di volta in volta occorre decidere; ma questa partecipazione è essenzialmente quantitativa, non qualitativa. Il web, come abbiamo già avuto modo di scrivere sulle pagine di questo giornale, orizzontalizza tutto e nel suo spazio l’opinione dell’uomo della strada sulla relatività generale vale quanto quella di un professore di fisica teorica. In questo modo, la deliberazione via web - nonostante il vantaggio in termini di aumentata partecipazione - non è che una ripetizione up to date della retorica tradizionale dell’antipolitica contro ogni forma di autorevolezza, e come tale non serve a molto.

Servirebbe piuttosto un intervento di qualità, una sorta di inserimento progressivo delle competenze della società civile nel processo di formazione della volontà politica. Se ci si riflette, ciò che spesso infastidisce l’opinione pubblica è l’ignoranza sullo specifico del ceto politico congiunta alla sua pretesa di occupare posizioni rilevanti in ambiti significativi. Per tornare agli esempi già fatti, un serio intervento legislativo nella finanza, nella sanità e nella cultura presuppone uno sforzo del ceto politico. Tale sforzo consiste essenzialmente nella volontà e nella capacità di intercettare competenze rilevanti - che non vuol dire ricorrere a governi “dei professori” ma solo difendere lo spazio della politica - negli ambiti in cui si opera.

Quello che spesso sconcerta il pubblico è il disinteresse della politica per il contenuto specifico dei settori di volta in volta toccati cui spesso si unisce una certa arroganza. Per essere meno sotto accusa, il ceto politico dovrà dismettere invece l’ignoranza e l’arroganza. L’antipolitica per la verità non è particolarmente incline a prendere sul serio il ruolo delle élites professionali e tecniche. Anzi spesso e volentieri indulge nel qualunquismo populistico che è all’opposto di ciò. Ma può avere il risultato che auspichiamo come un effetto indiretto, costringendo il ceto politico sulla difensiva e obbligandolo a essere più sensibile alle istanze della società civile. Qualora così non fosse, temo dovremmo arrenderci all’idea che il ceto politico attuale scomparirà.

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