Legge elettorale, il valzer delle finte mosse

di Mauro Calise
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Venerdì 12 Maggio 2017, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 00:17
Scriviamolo per l’ennesima volta. Con l’impegno – verso i poveri lettori – che una volta finito questo articolo, potranno smetterla di preoccuparsi e informarsi su se e quale legge elettorale riuscirà a votare il Parlamento. Non se ne farà niente. Scriviamolo pure a lettere di scatola. Niente. O, meglio (peggio), niente di buono. Non c’è alcuna possibilità che si riesca a varare, in questa legislatura, una legge elettorale che aiuti in modo sostanziale a rendere più governabile questo paese. Lo sanno tutti i bene informati. Non ci sono le condizioni politiche per trovare una soluzione concordata. Per la semplice, lapalissiana ragione che ogni partito – grande o piccolo – è disposto a votare soltanto un provvedimento fatto a proprio uso e consumo. E dato che gli usi e consumi – veri o presunti che siano - variano sensibilmente da un partito all’altro, come si fa a partorire un accordo? 

D’altronde, basta uno sguardo alle tre leggi elettorali precedenti per ricordarsi che sono state approvate in condizioni a dir poco eccezionali. La prima, il Mattarellum – di gran lunga la migliore che abbiamo avuto – fu varata dopo il referendum che aveva fatto piazza pulita del sistema con cui gli italiani avevano votato per quasi mezzo secolo. Insomma, una approvazione obbligata. Bisogna aggiungere che fu l’unico caso in cui la normativa adottata aveva un capo e una coda. Si sforzava, cioè, di traghettare l’Italia orfana dei partiti storici da un sistema proporzionale verso un modello maggioritario. Con la speranza che potessimo anche noi approdare a quel bipartitismo perfetto che era il sogno dell’alternanza democratica. 

Il Mattarellum ci riuscì solo a metà, anche per i suoi limiti tecnici (alla fine l’uninominale fu corretto da una quota proporzionale che aiutò la sopravvivenza dei partitini minori). Ma almeno – anche grazie al contributo determinante di Berlusconi - abbiamo avuto l’esperienza del bipolarismo. Fu, però, lo stesso Berlusconi a distruggere quel precario equilibrio. Con quel quasi-colpo di stato che va sotto il nome di Porcellum. Una legge con due obiettivi: tagliare le radici che l’Ulivo stava mettendo in periferia grazie ai collegi uninominali; e disporre di parlamentari arcifedeli grazie al potere di nominarli ex-antea, nel chiuso delle segreterie – o di Arcore. Il primo obiettivo andò a segno, e da allora il centrosinistra non è riuscito a recuperare un legame coi territori. Il secondo ha funzionato meno. Il parlamento dei nominati si è fatto beffe dei suoi capoccia. Prima, nel centrodestra, con la defezione dei finiani, seguita a ruota dagli alfaniani. Poi, nel centrosinistra, con le truppe cammellate dei bersaniani che non hanno esitato – in buona parte – a saltare sul carro del renzismo appena è sembrato avere il vento in poppa. 
Anche per questo, non c’è da preoccuparsi dell’aspetto più stigmatizzato dell’Italicum dimezzato che adesso ci ritroviamo. I nominati di domani non saranno molto diversi da quelli di ieri. Seguiranno il proprio nominatore fin tanto che gli tornerà comodo. Il punto critico, semmai, è un altro. Sbarazzatici del doppio turno – considerato incostituzionale malgrado sia in vigore in Italia per le elezioni dei sindaci e in Francia per quelle del Presidente – nessuno sa come sarà possibile mettere capo a una maggioranza stabile. Né provvedono a questo bisogno la dozzina di proposte che girano sui tavoli delle commissioni e dei talk-shaw. Tutt’al più fanno finta di promettere più rappresentatività e/o maggiore peso dell’elettore nella scelta di chi occuperà il seggio in parlamento. I cosiddetti pannicelli caldi che eludono – consapevolmente – il problema chiave italiano: come si forma un governo che governi una volta aperte le urne e contati i risultati.

È questo il problema che sta a cuore a tutti i cittadini che si aspettano risposte, soluzioni operative, capacità decisionale. Ma non è ciò che interessa ai partiti. Una volta che hanno capito che nessuno ce la farà a vincere da solo, l’importante è avere una norma che ti tenga in qualche modo in gioco. Al tavolo delle trattative. Per fare e disfare esecutivi, condizionarli da dentro o da fuori. Aspettando che il capo dello Stato ponga fine alla tarantella indicendo nuove elezioni.

Il solo che non avrebbe interesse a infilarsi in questa palude, è Matteo Renzi. L’unico leader – dopo Berlusconi – che è sceso in campo con l’obiettivo preciso di conquistare Palazzo Chigi. E che continua a puntare il timone dritto in quella direzione. Ma Renzi è uscito indebolito dall’assalto referendario dei suoi nemici. Soprattutto di quelli interni. E oggi lo strumento migliore di cui dispone per recuperare energie, resta l’Italicum dimezzato. Peraltro, ha anche tutto il diritto di dire che l’impasse attuale è il risultato di tutti quelli che hanno remato, tenacemente e violentemente, contro una legge che – con tutti i suoi limiti – avrebbe molto semplificato e rafforzato la formazione del governo. Per questo la previsione più plausibile – anche se non la più ragionevole – è che non ci sarà una nuova legge. Forse, in extremis, un po’ di maquillage. L’unico auspicio è che almeno la smettano col teatrino delle proposte abborracciate, con corredo di bocciature incrociate. Hanno tutte lo stesso nome: Presingirum. 
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