Fortini espugnati/ Così il naufragio della sinistra spinge i moderati

di Alessandro Campi
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Lunedì 26 Giugno 2017, 01:12
Ha vinto l’astensionismo, cresciuto di quasi dieci punti rispetto al primo turno. Con tanti elettori (stavolta anche di sinistra) rimasti a casa – per delusione, stanchezza, caldo e mancanza di candidati nei quali riconoscersi – viene da chiedersi come sia possibile ricavare da questo voto amministrativo conclusioni valevoli in prospettiva anche su scala nazionale. Ma il fatto che Macron sia stato scelto da appena un francese su cinque non ci ha impedito, in queste settimane, di trarre dalla sua elezione insegnamenti d’ogni tipo sul futuro della politica europea. Perché dovremmo risparmiarci considerazioni e giudizi a partire dai risultati di ieri?

Se in politica contano i simboli, Genova sicuramente lo è. Senza scomodare la Resistenza, i camalli, la canzone d’autore e don Gallo, era dal 1992 che l’amministrava la sinistra (non senza incidenti di percorso). Da ieri la città è passata al centrodestra, seguendo il destino politico della Regione. La verità è che nella politica italiana odierna, dominata dalla fragilità dei partiti e dalla conseguente volatilità degli elettori, non esistono più roccaforti inespugnabili: rosse, bianche o nere. 

Quando nel 1999 cadde Bologna per merito dell’indimenticato Guazzaloca, dopo appena 5 sindaci comunisti in poco meno di 55 anni, fu un avvenimento epocale. Oggi si tratta di fisiologica alternanza, che spesso è favorita più dai demeriti altrui che dalle capacità proprie; o più semplicemente dalla voglia di cambiare dei cittadini, che hanno smesso di votare secondo lealtà o appartenenza.

Ma il centrodestra non ha conquistato solo Genova. Si è preso anche Catanzaro, Verona, Rieti, Pistoia, La Spezia, Alessandria, Como (per fermarsi alle piazze più importanti). E persino L’Aquila e Sesto San Giovanni, anch’esse città simbolo di una sinistra in pesante affanno. Il dato più eclatante di questa tornata è dunque la ritrovata forza del vecchio blocco berlusconian-moderato: di nuovo unito, di nuovo vincente. Con questi risultati non sarà facile per Berlusconi riproporre, come si vociferava ancora ieri, l’accordo con Renzi sulla legge elettorale proporzionale. Suonerebbe politicamente paradossale e incongruo: esattamente come continuare a dare sostegno parlamentare al Pd nella prospettiva di una “grande coalizione” che a questo punto si allontana come proposta politica. Non capirebbero per primi gli elettori, dai quali sembra essere venuto un messaggio di compattezza (insieme ad un desiderio di rivincita dopo cinque anni di sconfitte, litigi e diaspore) che i capi del centrodestra – Berlusconi in testa – sbaglierebbero a sottovalutare. 

D’altro canto, se il Cavaliere si è così impegnato in quest’ultimo scorcio di campagna elettorale è perché si è reso conto che la sua intesa cordiale con Renzi stava segnando il passo. Visti i sondaggi favorevoli per la sua area, ha voluto intestarsi la vittoria piuttosto che lasciarla a Salvini (che dal canto suo dovrà meditare sulla sconfitta del candidato leghista a Padova) o al suo pupillo Toti: colui che per aver fatto della Liguria il laboratorio del nuovo centrodestra esce oggettivamente ingigantito da queste amministrative. Questa vittoria, se da un lato rilancia con forza la prospettiva di una rinnovata alleanza, dall’altro pone però il problema, considerate le ambizioni di leadership a cui nessuno vuole rinunciare, di chi possa guidare un’eventuale coalizione di centrodestra alle prossime politiche. Visti i veti reciproci forse si sarà costretti a trovare una personalità esterna che possa coagulare e mediare tra le diverse anime. E chissà che non risulti questa, anche agli occhi degli elettori, la fortuna del futuro centrodestra. 
Come è noto, Renzi in queste elezioni (e ancor più nel ballottaggio) si è tenuto ostentatamente fuori da comizi e incontri pubblici. Con l’idea di ridurre l’impatto negativo della sconfitta (annunciata e puntualmente verificatasi, sebbene in proporzioni maggiori di quelle temute) e di non darle un valore politico generale. Ma ci sono nodi che, per come sono andate le cose, nell’immediato futuro il segretario del Pd non potrà sfuggire. Questo voto, sul quale certamente hanno pesato le lacerazioni prodotte dalla scissione bersaniana e il disorientamento che ne è seguito tra gli elettori, certifica, su scala ridotta ma in modo comunque significativo, la fine del progetto espansivo renziano. Se la sua idea originaria (e originale) è stata quella di allargare gli storici confini elettorali della sinistra, modulando un linguaggio e proposte che potessero intercettare il consenso dell’Italia centrista e moderata, quella stagione sembra finita. Nei pochi comuni dove sembra aver vinto (Lecce, Taranto, Padova) e nei molti in cui ha comunque conquistato il ballottaggio, il centrosinistra lo ha fatto chiamando a raccolta, peraltro con fatica, il suo elettorato tradizionale. Riaggregare la sinistra, lasciando perdere lo sfondamento al centro, è dunque il nuovo orizzonte strategico (obbligato) di Renzi, secondo la strada indicata da Romano Prodi, il padre dell’Unione, non a caso tornato protagonista di questa congiuntura. Il problema è come realizzare questo obiettivo dal momento che certi contrasti hanno ormai assunto un carattere marcatamente personalistico. Come collaborare quando non ci si fida più gli uni degli altri e si pensa solo a come regolare le offese ricevute? 

Il M5S è il vero sconfitto di queste amministrative. Lo scorso anno presentò poche liste riuscendo a conquistare Roma e Torino. Quest’anno si è presentato un po’ ovunque ma ha incassato solo due ballottaggi di una certa importanza: Asti e Carrara (perso il primo, vinto il secondo). Bastano a spiegare questo risultato le divisioni interne, i candidati sbagliati e la scelta di non coalizzarsi con nessuno. Senza contare il riverbero negativo, sul piano dell’immagine, della Raggi e del suo non-governo romano. La fortuna del M5S – certificata dai sondaggi – è che rimane a livello nazionale il partito verso il quale convergono tutti coloro che, per una qualunque ragione, ce l’hanno col Sistema, col Potere o semplicemente col Governo. Il fatto è che vicende come quella del salvataggio delle due banche venete a spese dei contribuenti e senza che nessun amministratore sia stato chiamato a rispondere dei suoi fallimenti, sembrano fatte apposta per attizzare la rabbia politica che i grillini sono abilissimi nel canalizzare. A questo turno sono fuori dai governi cittadini, ma per Palazzo Chigi sarà un’altra partita. 

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