Comunali, i contraccolpi dello scossone

di Alessandro Campi
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Lunedì 20 Giugno 2016, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 02:19
Le tendenze che delineano queste amministrative, specie se si guarda al voto delle città più importanti, sono - oltre al crollo dei votanti (poco più del 50%) - una drastica battuta d’arresto per Matteo Renzi e una vittoria politica assai significativa (e tutta al femminile) del M5S. Quanto al centrodestra, la sua speranza di riprendersi Milano e di farne il proprio punto di ripartenza dopo una lunga crisi si è dissolta. 

Ma c’è un dato più generale che, anche guardando al grande successo a Napoli di De Magistris, sembra scaturire dal voto di ieri: la diffusione nel profondo del corpo sociale di un umore collettivo, segnato dalla ricerca del nuovo ad ogni costo e da una volontà punitiva nei confronti dell’establishment, che nessuna forza politica tradizionale è più in grado di controllare.

Matteo Renzi – soprattutto se si guarda ai risultati di Roma, Torino, Napoli e Trieste – è il principale sconfitto di questa tornata, ma bisogna intendersi. Non perde il presidente del Consiglio, bensì il segretario del partito. Non perde il governo, il cui operato non era oggetto di giudizio, ma il Pd, che guidava la maggior parte dei Comuni in cui si è votato e che – pur avendo mantenuto Milano e vinto in città quali Bologna, Varese e Caserta – esce politicamente assai ridimensionato da questi ballottaggi. 

La forza del Pd, rispetto ai suoi più diretti contendenti, sono sempre stati l’unità interna, garantita dall’impegno di un ceto dirigente formato da solidi e navigati professionisti della politica, e la robustezza dell’apparato organizzativo, in grado di assicurare una presenza diffusa sul territorio e un rapporto con gli elettori nel segno di una relativa fedeltà.
Queste elezioni hanno certificato quanto male abbiano fatto al Pd le divisioni interne che hanno seguito l’ascesa di Renzi alla sua guida e che, a guardare le cose con un minimo di obiettività, non sono tutte imputabili all’ottusa strategia di logoramento perseguita dalla minoranza interna d’ispirazione dalemian-bersaniana, ma anche all’indisponibilità a trattare con i suoi oppositori mostrata da Renzi. Da parte di quest’ultimo probabilmente ci sarà da rimeditare la sua azione di rottura con la sinistra di matrice comunista. Lo sfondamento al centro, in grado di compensare la diaspora di questa componente, non c’è stato nemmeno stavolta. L’Italia moderata, per quanto politicamente allo sbando, preferisce evidentemente buttarsi sull’astensionismo piuttosto che accasarsi dalle parti del Pd, anche se riverniciato con tonalità liberali e riformiste.

Per Renzi si annunciano quindi tre passaggi: ricompattare il partito (e i suoi elettori), per evitare di perdere personale politico e consensi alla sua sinistra; rivedere il suo progetto di un “partito della nazione”, che sembra avere una base parlamentare ma non popolare; cominciare a valutare se per caso non gli convenga rinunciare al suo attuale doppio incarico per mettere la segreteria del Pd nelle mani di qualcuno che possa realmente occuparsi (quotidianamente, senza dover ricorrere al lanciafiamme) dell’apparato organizzativo, della selezione della classe dirigente, delle candidature, ecc.

La vittoria di Virginia Raggi a Roma era largamente attesa, anche se stupiscono le dimensioni del suo distacco da Giachetti. I romani hanno messo da parte le loro antiche appartenenze o simpatie ideologiche e si sono fatti guidare unicamente dallo sdegno. Volevano un cambiamento radicale al vertice della città e l’hanno perseguito in massa, facendo convogliare sulla Raggi (anche da destra) un voto di protesta trasversale. Molti sono convinti che Roma, ingovernabile per definizione, sarà la tomba politica del grillismo. Ma conviene ricordare che nella Capitale si parte da un tale livello di degrado che già, se rispettato, l’impegno di manutenere le strade e il verde pubblico verrebbe percepito dai cittadini come una rivoluzione da esportare in tutt’Italia.

Se il risultato romano era persino scontato, la vera vittoria politica il M5S l’ha invece ottenuta, clamorosamente, a Torino. Qui non c’era da sanzionare la cattiva gestione della città da parte della maggioranza uscente. Si desiderava un generico ma drastico cambiamento, anche a costo di affidarsi ad una giovane rassicurante nei modi, ma di scarsa esperienza amministrativa. Nell’Italia di oggi (ma lo stesso sembra accadere anche in altre democrazie) il potere logora chi ce l’ha. Si è puniti elettoralmente dai cittadini per il solo fatto di occupare una poltrona o di esser percepiti come l’espressione di un blocco di potere per definizione marcio o corrotto. Al politico navigato, per onesto e capace che possa essere, si preferisce l’outsider, specie se giovane. C’è davvero poco da opporre ad un sentimento così irrazionale, che se dovesse diventare quello che orienterà il voto degli italiani anche alle prossime politiche potrebbe determinare cambiamenti radicali.

Il centrodestra aveva puntato le sue carte più importanti sulla piazza milanese, ma è andata male (malissimo in Lombardia se si considera anche la perdita di Varese). Stefano Parisi, unendo il centrodestra, l’ha reso sicuramente più competitivo, ma la sua sconfitta, seppure di misura, dimostra che non basta la sommatoria delle sue diverse componenti per ricreare la magia degli anni d’oro del berlusconismo. Mancano le idee e i programmi. Il vecchio leone è stanco e ha un partito allo sbando. C’è poi da considerare che i due giovani leader di Lega e Fratelli d’Italia, oltre ad essersi ideologicamente radicalizzati rispetto al passato, non ci staranno mai a fare i portatori d’acqua per il fronte dei moderati rinunciando alle loro ambizioni di leadership. Che questo voto amministrativo ha dimostrato premature senza tuttavia frustarle una volta per sempre. Il centrodestra, pur avendo perso la storica piazza di Latina, ha comunque ottenuto significative affermazioni a Grosseto, Trieste, Pordenone, Savona, Novara, Domodossola, Isernia, Brindisi e Crotone. Il che significa che la base di consenso sociale del centrodestra è ancora potenzialmente molto solida. Ma la sua rinascita su base nazionale dipende dal tipo di offerta politica che questa parte politica saprà rivolgere nel prossimo futuro ai suoi sempre più delusi elettori. 
 
Resta da dire del Renzi capo del governo. Se non subisce contraccolpi nell’immediato, la sua strada verso il referendum appare più in salita. Anche perché sembra si stia passando (e non è un gioco di parole) dal “Renzi contro tutti” di qualche tempo fa al “tutti contro Renzi” di oggi. La prima formula indicava un leader innovatore, volenteroso, proiettato verso il futuro, sicuro di sé, fautore del cambiamento e dell’innovazione, che si lanciava contro i conservatori e gli immobilisti di ogni colore: l’ottimismo della volontà di un singolo contro la difesa dei privilegi delle molte corporazioni italiche. Da un parte il buono, dall’altra i cattivi. Ma lo schema sembra essersi rovesciato. Gli avversari di Renzi si stanno coalizzando, persino in modo politicamente innaturale, con l’argomento che egli sia il portatore di una visione del potere personalistica, accentratrice, cinica e priva di ideali. Il cattivo, contro il quale tutti i buoni di uniscono, rischia di diventare lui. Di queste strane alleanze o convergenze si sono avute chiare avvisaglie proprio in queste elezioni. La destra vota volentieri per i grillini (e talvolta viceversa). Ma né destra né grillini votano mai per il Pd, che a sua volta deve fare i conti anche con i malumori della sinistra radicale e con quelli che nello stesso Pd giocano allo sfascio. Insomma, di cose su cui meditare, dopo questo voto, Renzi ne avrà molte.
 
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