Centrodestra, le chances e le insidie di una sfida

di Alessandro Campi
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Lunedì 25 Luglio 2016, 02:57
Tramontato il bipolarismo, si ripete spesso, abbiamo oggi un sistema politico tripolare. Giusto. Peccato solo che due poli (sinistra e grillini) appaiano ben strutturati e relativamente compatti, con un perimetro ideologico definito e riconoscibile, con una leadership anch’essa ben visibile dagli elettori, mentre il terzo (quello di centrodestra) risulti ancora diviso al suo interno, privo di una guida unitaria, senza un programma comune e dunque debole e poco attraente per coloro che potrebbero (o vorrebbero) votarlo.

Lo si vede, del resto, dai titoli dei giornali e dal racconto quotidiano della politica. È come se a livello mediatico si fosse già stabilita una competizione a due tra Renzi e Di Maio. Con il centrodestra che alle prossime elezioni politiche, così continuando e ferma restando l’attuale legge elettorale, potrà al massimo fare da portatore d’acqua o ago della bilancia: non potendo vincere in proprio, perché scarsamente competitivo, si limiterà a far vincere (o perdere) uno degli altri competitori, senza peraltro averne nulla in cambio.

Nasce da qui l’interesse per la sfida lanciata nei giorni scorsi da Stefano Parisi. Il suo obiettivo, che parrebbe sostenuto direttamente dal Cavaliere e da alcuni autorevoli esponenti della vecchia guardia berlusconiana (Confalonieri, Letta), è trasferire l’esperienza milanese, tutt’altro che fallimentare a dispetto della sconfitta alle urne, su scala nazionale. Pragmatismo, toni pacati, concretezza, efficienza manageriale, serietà: è la sua ricetta di base per ricompattare il centrodestra e sottrarlo alla tentazione perdente del populismo. 

Ma subito sono nati i problemi: il gruppo dirigente di Forza Italia si è prevedibilmente messo di traverso sostenendo che Parisi, da tutti ovviamente stimato e apprezzato, sarà il benvenuto se vorrà dare una mano e fare gioco di squadra, ma quanto alla leadership notoriamente c’è e basta Silvio: un atto di deferenza al vecchio capo che però è solo un siluro lanciato contro quello potenzialmente nuovo. 

Il che pone subito un serio problema: un’imposizione o designazione dall’alto, ammesso ci sia, rischia di essere in sé delegittimante per Parisi, che se ha davvero ambizioni dovrà accettare di misurarsi a viso aperto, prima o poi, con chi all’interno di Forza Italia (e più in generale del centrodestra) ha le sue stesse e del tutto legittime aspirazioni. Le leadership si conquistano e non si ereditano: è la regola alla quale il mondo in senso lato berlusconiano, in cerca di rinnovamento, non potrà sfuggire troppo a lungo.

Ma Parisi, prima di andare allo sbaraglio, dovrebbe anche accertarsi se Berlusconi che lo ha evocato come volto nuovo e vincente per il centrodestra abbia nei suoi confronti intenzioni serie o lo voglia semplicemente strumentalizzare per il suo scopo di sempre: restare egli il capo unico e assoluto. L’esperienza di quel mondo qualcosa ahimè insegna: di leader in pectore tanti se ne sono visti, tutti regolarmente bruciati dopo essere stati illusi ed utilizzati per giochi di potere interno. Stia dunque attento a non partire futuro capo di un nuovo partito o candidato premier per poi trovarsi al massimo deputato nel prossimo Parlamento.

Ci sono poi gli errori - di comunicazione, di indirizzo politico - che lo stesso Parisi, se lui e Berlusconi hanno intenzioni serie, dovrebbe da subito evitare. Sarebbe bene, ad esempio, risparmiare agli elettori di centrodestra l’umiliazione di doversi sempre far guidare o rappresentare da politici che come principale credenziale pubblica esibiscono il loro provenire o persino il loro essere di sinistra. Le ideologie saranno pure finite, le carte politiche si saranno pure rimescolate, si può persino decidere di non definirsi moderati o conservatori, ma il buon senso dice che sei vuoi costruire un’alternativa al centrosinistra renziano non puoi presentarti agli elettori come se appartenessi al campo politico-culturale che devi sconfiggere. 

Anche la carta del manager estraneo ai maneggi della vecchia politica andrebbe giocata con parsimonia, prima di pensare che sia quella risolutiva e vincente. Non siamo più al 1994 post-Tangentopoli e alla Forza Italia che lucrava sulla delegittimazione dei partiti: il mito della società civile è in declino, l’esperienza dei tecnici al governo si è rivelata un fallimento, ma soprattutto i cospicui dividendi dell’antipolitica li hanno ormai incassati interamente i grillini. Così come il nuovismo e l’ansia di cambiamento ad ogni costo, tipici anch’essi del berlusconismo delle origini, sono una retorica che è stata fatta ormai interamente propria da Matteo Renzi. Bisognerebbe tra l’altro chiedersi se per caso l’umore degli italiani non stia lentamente cambiando e se ciò che forse vogliono gli elettori di centrodestra – acclarato che il carisma antipolitico di Berlusconi sarà a lungo irripetibile – non sia piuttosto una guida marcatamente politica che non faccia sfoggio di giovanilismo ad ogni passo.

Poco credibile appare anche l’idea, ventilata da Parisi, che si debbano andare a pescare voti tra i riformisti e liberali di sinistra, che è un paradossale ribaltamento del Renzi che da anni va inutilmente a caccia dei voti centristi: il vero problema che hanno tutti i partiti di centrodestra, a partire proprio da Forza Italia, non è quello di allargare i propri confini, ma semmai di riprendersi i loro elettori storici sottraendoli alla tentazione dell’astensionismo.
Tutto ciò detto, dopo una lunga stasi del centrodestra, errori a ripetizione, liti furibonde e tentativi di scalata malriusciti, il tentativo di Parisi sembra serio, apprezzabile e da seguire con attenzione. Auguri e attento al fuoco amico.
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