L'appello: Moro libero «senza condizioni»

L'appello: Moro libero «senza condizioni»
di Dario Fo
4 Minuti di Lettura
Venerdì 17 Ottobre 2014, 17:22 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 16:59
Erano tempi difficili. Durissimi. In quei Settanta, che sono stati poi chiamati gli “anni di piombo”, Franca (Franca Rame, n.d.r.) aveva fondato Soccorso Rosso e affrontava lotte incredibili per “far capire”, per convincere quelli del movimento di come fosse sbagliato, e terribile, ciò che stava succedendo.



Andò anche nelle carceri, sollecitata dal ministero degli Interni, a parlare con i brigatisti reclusi. Si prese delle male parole, degli insulti. Restò impassibile. Capì di essere perdente, come perdente, in ogni caso, era la loro logica.



Quando fu rapito Aldo Moro, l’atteggiamento della politica nazionale sappiamo bene quale fosse. Nonostante i vari contorcimenti sembrava che non si volesse davvero trovare una soluzione. E alla fine Moro fu scaricato, fece la fine che sappiamo.



Eppure, appena tre anni dopo la sua morte, ci fu il caso Dozier, il generale americano della Nato rapito dalle Brigate Rosse a Verona, che si risolse con la liberazione dell’ostaggio. Sempre nell’81, il famoso “caso” Cirillo”, l’assessore regionale campano ai Lavori pubblici rapito dalle Br, per il quale la Democrazia Cristiana decise che si poteva trattare con i terroristi.



Il Pontefice di allora, Paolo VI, grazie alla sua cultura, alla raffinatezza indubbia del pensiero, alla proverbiale prudenza dalla quale è sempre stato contraddistinto, quando si trattò di Moro ebbe un atteggiamento tutto da interpretare. Indirizzò una lettera alle Br, pubblicata da tutti i giornali, in cui chiedeva la liberazione dello statista «senza condizioni». Ma poi, lo ricordo come fosse ora, fece un discorso. Ero vicino a mia moglie, davanti alla tv, lo ascoltai e dissi: «Franca, Moro è praticamente morto». Era prevalsa, anche in Vaticano, la linea democristiana.



Il Papa aveva manifestato la sofferenza e il dolore che gli venivano dal rapimento e dalla reclusione di un uomo che chiamava amico. Sul piano della dialettica del pensiero e dello scrivere, sembrò adombrare diverse possibilità, ma all’atto finale avanzò quel non possum. a Chiesa, attraverso il vicario di Cristo, voleva mantenere un equilibrio, stava attentissima agli effetti di ogni parola, di ogni azione.



Guardiamo, per contro, all’attualità. Il presente del Vaticano deve molto, ad esempio, al coraggio della curia milanese, la stessa dalla quale veniva Montini, il Lombardo, come lo chiamavamo allora. È una curia che partorisce sacerdoti di ottima levatura e che ora si è lasciata alle spalle silenzio e prudenza. In Vaticano oggi ci si espone, si rischia, si dicono le cose pane al pane e vino al vino, a cominciare da Francesco, capace di parole e azioni a volte duri, se non pesanti. Roma mostra di voler pagare di persona. Cosa impensabile ai tempi di Montini.



Pensando alla beatificazione di Paolo VI, tanti argomenti si affollano alla memoria di chi visse i suoi anni di pontificato, di chi ricorda i molti casi in cui il Papa, ad esempio con le sue Lettere Encicliche, lasciò intravedere posizioni non sempre congrue con quelle poi assunte ufficialmente. La figura di Montini, con ogni probabilità, dà ragione a coloro che lo hanno definito il Pontefice del dubbio, assorto in un soliloquio anche doloroso, e da esso tormentato.



È stato chiamato, lui figlio di una cattolicissima famiglia del Nord, a occuparsi di lavoro, di contraccezione, di adeguamento ai tempi. Ha collaborato strettamente con Pio XII. Si attribuiscono a lui le parole pronunciate da Papa Pacelli nel 1939, nell’imminenza dello scoppio della seconda Guerra Mondiale. Nello storico radiomessaggio del 24 agosto il Santo Padre disse: «Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra».



E quando, alla fine del conflitto, molti cattolici oltranzisti presero ad osteggiare aspramente la diffusione delle idee marxiste, Montini lo fece in maniera razionale e pacata, non aggressiva.

Dopo la morte di Pio XII, salendo al soglio pontificio Giovanni XXIII, uomo molto diverso dal Papa conservatore che lo aveva preceduto, Montini, che era stato assai vicino al defunto Pontefice, divenne uno stretto collaboratore del nuovo, e accanto a lui promosse il messaggio innovativo del Concilio Vaticano II. Concilio cui più tardi avrebbe dato chiusura dopo la sua elezione a 262esimo vescovo di Roma e successore di Pietro.



Gli storici - senza le sintesi che io uso per esprimere gli stessi concetti - collocano Paolo VI eternamente tra due fuochi. Osservano che quel Papa, in nome dell’unità della Chiesa in un periodo che tendeva alla secolarizzazione, si mosse fra tradizionalismo (fu tacciato di aperture eccessive e addirittura di modernismo), e progressismo (i settori cattolici più vicini alle proposte socialiste lo accusarono di immobilismo).



Nel 1964, ancora prima degli anni di piombo, rinunciò all’uso della tiara. La mise in vendita a favore dei poveri. Chi pagò un milione di dollari per averla fu il cardinale Spellman, arcivescovo di New York, con il ricavato di una sottoscrizione (ho letto che il triregno è ancora oggi conservato nella basilica dell'Immacolata Concezione di Washington). Ancora, pur negando l’uso di anticoncezionali chimici o artificali, parlò di paternità responsabile.



Prudente, tormentato, poco incline allo scontro, nel testamento, scritto con egregia penna, in certo modo manifestò le ambasce da cui era stato oppresso. E chiese una tomba povera, senza monumento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA