Raffiche sulla campagna Usa che aiutano il Trump anti-Islam

di Mario Del Pero
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Lunedì 13 Giugno 2016, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:04
Si attende di sapere qualcosa di più di Omar Matee, il 29enne americano di origine afgana autore di questa ennesima, terribile carneficina. Odiava gli omosessuali e simpatizzava per l’Isis, ci dicono le prime ricostruzioni. È probabile, ma non certo, fosse un cane sciolto. Un uomo che come tanti altri prima di lui ha potuto sfruttare le maglie larghe della società statunitense – che tali rimangono, al di là di tutti i controlli e le campagne anti-terroristiche – e il facile accesso alle armi da fuoco per compiere questa strage.

Era, ed è, in fondo la preoccupazione principale: l’emergere di un terrorismo autoctono e fai da te, disarticolato e mosso da spirito emulativo, capace di colpire in modo imprevedibile come era già accaduto il dicembre scorso a San Bernardino, in California. Un terrorismo al contempo più e meno pericoloso del suo contraltare europeo. Che non sembra godere della rete di legami e supporti logistici del secondo; che manca, negli Usa, di quel terreno offerto in Europa da pezzi, minoritari ma non marginali, delle comunità d’immigrati arabi; ma che anche per questo sembra più difficile da individuare, prevenire e sconfiggere.
 
Rimangono però le rilevanti implicazioni politiche. Ancor più acute in questo anno elettorale, come ben mostra l’immediato tentativo di Donald Trump di capitalizzare su quanto è avvenuto. È chiaro che di tutto Hillary Clinton e i democratici hanno bisogno oggi meno che di una emergenza terrorismo. Sulla paura di un pezzo d’America, spregiudicatamente canalizzata contro l’altro mussulmano e gli immigrati messicani, Trump ha costruito parte delle sue fortune politiche. È un pezzo d’America, questo, che può essere ampliato, laddove vi dovessero essere altri attentati e l’emergenza terroristica occupasse il centro del dibattito pubblico. Una prospettiva che finirebbe per legittimare Trump e rendere più rispettabili anche le sue proposte politiche e il linguaggio, estremo e violento, con il quale sono veicolate. Di nuovo, è qualcosa che abbiamo visto all’opera anche dopo San Bernardino, quando la percentuale di americani preoccupati per il terrorismo islamico, e disposti a sostenere misure estreme per fronteggiarlo, crebbe in modo rapido e significativo.

Su questo agisce ancora l’onda lunga del trauma degli attentati dell’11 settembre 2001, qualcosa che fuori dagli Stati Uniti si dimentica o fatica a comprendere. Barack Obama ha cercato in molti modi di rispondere a queste fobie e di contenerne gli effetti. I suoi tanti compromessi in materia di politiche di sicurezza e di anti-terrorismo sono spesso originati da questo sforzo. Nell’ultimo anno – e ancor più dopo gli attentati di Parigi del novembre scorso – ha cercato di offrire un messaggio ragionevole e pacato nel tentativo di rassicurare un’opinione pubblica spaventata e preda potenziale di demagoghi come Trump. Capiremo nel tempo se sia stata la reazione più appropriata; se affermare, come ha fatto più volte il Presidente, che l’Isis e il terrorismo di matrice islamica non costituiscono delle “minacce esistenziali” per l’America e la sua sicurezza sia il modo più efficace per relazionarsi a un’emotività popolare comprensibile e naturale.

Libero da vincoli elettorali, e condizionamenti conseguenti, Obama ha offerto un messaggio sì pragmatico, ma non di rado algido, distaccato e, in una certa misura cerebrale, che nessun candidato alla Presidenza potrebbe in questo momento replicare. Ecco perché la strage di Orlando, che piomba su un dibattito elettorale già di suo assai imbruttito e polarizzato, quasi certamente contribuirà ad avvelenare ancor più il clima politico e ad acuire le divisioni e le contrapposizioni oggi esistenti.
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