Parole d’ordine/ Gesto anti-establishment che rompe col passato

di Massimo Teodori
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Sabato 21 Gennaio 2017, 00:26
Il messaggio di Donald Trump all’insediamento presidenziale è stato improntato alla completa rottura con il passato, ad un drastico cambiamento di tutta la precedente politica, ed alla proclamazione di un’America che dovrebbe tornare ad essere grande, ricca e sicura.
Le parole del Presidente sono state ispirate al disprezzo per l’establishment di Washington e alla compiacenza verso i sentimenti più facili di una parte degli americani. Oggi, però, il discorso ha un peso diverso da ieri in quanto non è volto a guadagnare voti ma a delineare i principi con i quali sarà governata la maggiore potenza del mondo.
Senza sfumature Trump ha affermato che questa volta il passaggio dei poteri tra presidenti è del tutto diverso - “speciale” - dalle cerimonie di alternanza del passato: la differenza sta nella decisione di “trasferire il potere al popolo”. Un concetto chiave per interpretare il discorso inaugurale che deve essere considerato un vero e proprio manifesto populista valido non solo per gli Stati Uniti ma anche per altre nazioni. 

Da Capitol Hill, sede del potere istituzionale, il 45° presidente ha sottolineato che negli Stati Uniti il potere da tempo in mano a un piccolo gruppo, “da questo momento appartiene al popolo che deve controllare il governo”. Un messaggio che sembra mettere in discussione l’architettura costituzionale americana tutta incentrata sul bilanciamento dei pesi e contrappesi istituzionali. In sostanza, si può dire che ad una visione liberal-istituzionale generalmente seguita da Repubblicani e Democratici, questa volta è subentrata, almeno a parole, una visione populista che vorrebbe trasferire una qualche forma di potere plebiscitario al di fuori dalle istituzioni. 
L’altro concetto affermato con forza riguarda il continuum tra nazionalismo, protezionismo e isolazionismo. Avere adottate come regole fondamentali “comprare americano” e “assumere americano” significa avere strizzato l’occhio a quei settori della classe media bianca che sono stati messi in difficoltà dalla globalizzazione. Prima e più di molti suoi epigoni europei, Trump considera il ritorno al protezionismo economico e commerciale dopo sessant’anni di liberalizzazioni internazionali la strada maestra per recuperare un’espansione della ricchezza nazionalmente prodotta e distribuita. 

Ancora una volta l’abilità comunicativa di Trump è riuscita a interpretare il crescente disagio dell’impoverimento che si è manifestato clamorosamente, a destra come a sinistra, in campagna elettorale. Ma avere denunziato che sono troppi gli americani intrappolati nella povertà ed avere rigettato la politica del welfare, non significa affatto che il presidente abbia in tasca una ricetta per milioni di posti di lavoro come è stato promesso già in queste ore. 
Connesso al protezionismo socioeconomico il discorso ha puntato anche sul lato isolazionista del nazionalismo. L’America, ha fatto troppo per le altre nazioni, le ha arricchite, ha provveduto alla loro difesa, e ha speso miliardi di dollari all’estero. È arrivata l’ora di interrompere tutto ciò e ridistribuire entro i confini nazionali il benessere dissipato in giro per il mondo. Con la formula più volte reiterata “L’America al primo posto”, di fatto sono stati messi in discussione il ruolo e le responsabilità dell’America sulla scena internazionale.
Funzionerà la ricetta populistico-nazionalista di Trump? Nessuno lo può dire anche perché alle parole dovranno seguire i fatti che le rendono concrete. Certo è, tuttavia, che l’America di domani non sarà più la stessa di ieri.
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