Mode pericolose/Diffidare del ritorno dei tecnici in politica

di Marco Gervasoni
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Giovedì 3 Agosto 2017, 00:05
Nuovo gioco di mezza estate: licenzia più funzionari Donald Trump o Virginia Raggi? E, sempre a metà tra il serio e il faceto, altre analogie saltano agli occhi: oltre alla girandola di ministri a Washington e di assessori e dirigenti a Roma, la modestia dei risultati a fronte delle speranze sparse, e poi il grande caos regnante nelle due amministrazioni. 
Ma, tornando seri, e fatte le debite proporzioni, le vicende vissute in questi giorni dalle due figure, Trump e Raggi, devono far riflettere su una tendenza riaffiorante nel mondo occidentale. La tentazione dei ricorso al tecnico, all’esperto e più in generale al «non politico» per ricoprire incarichi…politici, quali la guida di un ministero o anche di un assessorato. Trump ha quasi del tutto eliminato nel suo esecutivo e nel suo staff le figure dell’establishment del Partito repubblicano per far posto a militari, a manager, a imprenditori. Categoria cui si fregia di appartenere lo stesso presidente, che continua orgogliosamente a non rivendicarsi politico. 
La giunta Raggi è in larga parte costituita da assessori «tecnici» mentre gli stessi 5 Stelle promettono che, se andranno al governo, nomineranno, a guidare i dicasteri, i «competenti». Intendiamoci: una cosa è attingere dalla società civile. Cosa buona e giusta. Altro ritenere che il tecnico possa sostituirsi al politico e rappresentare il superamento di un’esigenza invece inossidabile dalla notte dei tempi. La politica è guidare un processo, con competenza, servendosi del contributo di tecnici per le soluzioni. 

Altri esempi: in Francia bisogna tornare ai tempi di De Gaulle per trovare, come oggi, tanti tecnici al governo, mentre il partito del presidente, La République en marche, è popolato da imprenditori, soprattutto di start-up. Ultimo esempio: il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, da poco a capo dei Popolari, li sta trasformando in un partito dei manager e degli imprenditori. Il politico di professione è scansato da tutti, moderno monatto. Molte le cause.

Ci limitiamo a indicarne due: 1) egli non ha più reale rappresentanza, possiede scarso radicamento territoriale e anche il voto di scambio, inteso pure in senso nobile, come difesa di interessi legittimi, ormai gli è precluso; 2) la società degli individui, animata da richieste particolari difficilmente sintetizzabili, non si riconosce più nel politico, portatore di una tendenza universalistica, mentre il tecnico, il competente, il manager, sembrano sulla carta più affidabili. E’ una tendenza da abbracciare con entusiasmo? Tutt’altro. Per memoria storica, prima di tutto. In Italia abbiamo vissuto diverse esperienze in cui prevalevano i tecnici e gli esperti: in alcuni casi, hanno sacrificato l’interesse nazionale italiano sull’altare dell’Europa, che poi in molti casi coincideva con gli interessi economici di altri paesi.

Anche da un punto di vista teorico, poi, qualcosa non quadra.
Come il borghese gentiluomo di Molière faceva della prosa senza saperlo, anche l’esperto, chiamato alla cosa pubblica, finisce per diventare politico; a cui però manca l’apprendistato pratico, la forma mentis, la capacità di visione, di cui è costretto ad impadronirsi in corso d’opera: ma chi di voi si farebbe operare da un chirurgo che sta imparando mentre vi apre? Spesso così l’esperto finisce per praticare cattiva politica e pessima tecnica, contribuendo così al caos dell’amministrazione. Il ricorso al non politico, inoltre, è un escamotage per forze politiche incapaci di ricostruire una propria classe dirigente, che però in tal modo non si rinnoverà mai. E aumenterà sempre più il divario tra élite tecnocratiche e il popolo, cioè il demos. Meglio quindi diffidare dalla tentazione dell’«areopago» di «chimici, fisici, poeti, matematici, medici», che «avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse»: un vero «ideale per imbecilli». Parole non di uno squallido partitocrate, ma di Benedetto Croce.
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