Due crisi appese a un filo

di Giulio Sapelli
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Mercoledì 11 Febbraio 2015, 23:44 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 08:52
Le notizie che provengono dall’Ucraina sono inquietanti e a un tempo tragiche. Il massacro dei civili sembra essere la cifra di questa guerra non dichiarata ma combattuta. Una guerra dove il controllo sul terreno delle milizie pare sfuggito ai due principali contendenti, da un lato il governo ucraino e dall’altro i filorussi che non dismettono la volontà di identità e di separazione. Il gioco diplomatico, in ogni caso, si va affermando con molta forza ed è ormai un gioco triangolare, perché gli Stati Uniti stanno tornando in campo diplomaticamente e non nel modo quasi isterico che sino a ieri aveva fatto il gioco di Vladimir Putin e di uno dei più sperimentati ministri degli Esteri, Sergej Lavrov, erede di una tradizione che non si è spenta con la morte dei Molotov e dei Gromiko, mentre negli Stati Uniti si sono perse le tracce dei Kissinger.



Ma Barack Obama è parso finalmente incisivo e determinato e ciò ora può rafforzare l’accordo che pare si raggiungerà. Un vecchio adagio del mondo diplomatico dice che i presidenti non si muovono se non quando l’accordo è praticamente raggiunto. Un accordo che pare si fondi ormai sull’eliminazione dal teatro di guerra delle armi pesanti e su un cessate il fuoco non provvisorio; restano, è vero, quanto mai incerte le delimitazioni territoriali.



È del resto assai difficile che i separatisti russi e i russofili si ritirino dai terreni conquistati e non vi è, sembra, gioco diplomatico possibile che possa ricacciare indietro coloro che hanno combattuto convinti della loro causa. Il futuro pare sia inevitabilmente quello di un’Ucraina quanto meno federale, di un’Ucraina ancora unita ma con più nazioni sotto il tetto di un unico Stato. Peraltro, una simile soluzione rifletterebbe in modo esatto la storia dell’Ucraina medesima, che si è costruita via via per inclusione di aree territoriali degli Stati confinanti, Russia compresa.



Putin, inoltre, ha scelto di allargare il campo di gioco e dei giocatori, ossia di continuare a rendere manifesta una intensa attività diplomatica anche la di là dei confini russo-ucraini. È infatti significativo l’accordo concluso con l’Egitto di Al Sisi di costruire la prima centrale nucleare egiziana. Un monito per ricordare che se Usa ed Europa diventano più concilianti sul fronte delle sanzioni, il ruolo russo in Nord Africa e Medio Oriente continuerà a essere essenziale per vincere il terrorismo.



Non bisogna del resto dimenticare che se si incendia la prateria ucraina e il fuoco delle steppe russe incontra la miccia dei Balcani, il conflitto potrebbe giungere a propagarsi sino in Serbia e tra gli Stati slavi del Sud che sono anche uno degli insediamenti umani territoriali più a rischio per quanto riguarda gli scismi islamici e le carneficine che potrebbero seguirne.



Che il vecchio adagio diplomatico acquisti dunque grande risonanza: la commissaria Federica Mogherini e il ministro Paolo Gentiloni non cessino dunque di invocare una soluzione diplomatica. Certo è sconcertante che al tavolo con Putin e Petro Poroshenko non sieda anche l’Europa come istituzione, impersonificata appunto dalla Mogherini. In fondo la crisi Ucraina ha diviso e lacerato le istituzioni europee più di quanto non si pensi, riaffermando il vecchio equilibrio di potenza franco-tedesco come cuore del Vecchio Continente sotto lo sguardo tra l’incerto e l’aggressivo della potenza americana.



È in questo contesto che si colloca anche il dramma greco. Che raggiunge oggi punte anche tragicamente menzognere dell’esperienza di Siryza, del suo programma e della cultura dei suoi gruppi dirigenti. E’ molto pericoloso, soprattutto nella situazione attuale in cui l’Europa rischia la dissoluzione diplomatica, invocare l’argomento che non si può trattare sulle proposte economiche alternative greche, contrarie alla continuazione della politica dell’austerità, perché così facendo si favorirebbe la crescita dei partiti populisti di destra e anti euro.



Mi riferisco alla versione nobile e colta di Alterntive Fur Deutschland che raccoglie il fior fiore dell’intellighenzia e dell’economia tedesca da un lato e, dall’altro, lo speculare protagonismo di Marin Le Pen che personifica, invece, il ruolo di una destra ancorata alle tradizioni dell’Action Francais e della rivendicazione di un ruolo autonomo e universalistico della Francia, sino a giungere e a rivendicare il ritorno alle monete nazionali.



Si legga il programma elettorale di Syriza: esso in nessuna parte chiede l’uscita dall’euro. Chiede ben altro, chiede la fine dei fallimentari programmi di austerità che non hanno guarito nessun malanno economico e hanno, invece, esacerbato le ferite sociali. Si può essere d’accordo o meno su questa prospettiva, ma non si può confonderla con le posizioni di coloro che chiedono il ritorno alle monete nazionali in Europa. Syriza aspira di fatto a una soluzione nord americana: moneta unica ma autonomia dei bilanci nazionali con fondi di solidarietà a geometria variabile.



Il ministro Varoufakis non è uno sprovveduto. Nei suoi libri si trovano molte delle idee, per nulla radicali, che egli va presentando a ministri e capi di governo in questi giorni e che esprimono verità ben diverse da quelle che taluni millantano. È bene che gli europei sappiano che se alla crisi ucraina aggiungiamo pure l’esasperazione delle divisioni europee, non solo il conflitto rischia di espandersi sino agli Stati slavi del sud e del Medio Oriente; ciò può costituire la base per una decadenza culturale e politica, prima che economica, ben più forte di quella già iniziata non solo in Europa ma in tutto l’Occidente.