L’eredità di Barack/Obama contro Putin per colpire Trump

di Massimo Teodori
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Giovedì 22 Settembre 2016, 00:05
Con il discorso all’Onu, il presidente Obama ha affrontato alcune partite aperte. Due questioni aperte sia nei rapporti internazionali che nella politica domestica. Il presidente degli Stati Uniti ha poi riaffermato alcuni tratti essenziali dell’eredità politica e morale che trasmetterà al successore quando il 20 gennaio 2017 lascerà la Casa Bianca.
Le parole del Palazzo di vetro riequilibrano l’impressione che, a torto o a ragione, il Presidente aveva dato circa il rapporto troppo morbido con Vladimir Putin. Era stato criticato per non avere reagito sulla Crimea, non avere sostenuto la lotta degli ucraini, avere condiviso il negoziato sul nucleare con l’Iran e, soprattutto, essere stato ondeggiante di fronte al dittatore siriano Assad, satellite di Mosca.

Critiche, queste, in parte giustificate soprattutto per la condotta di politica estera durante il primo mandato quando segretario di Stato era Hillary Clinton. Ora, di fronte ai capi di Stato riuniti all’Onu, il Presidente è stato più che mai deciso nell’ammonire l’autocrate russo di non tentare di «recuperare la vecchia gloria della Russia con la forza», cosa che non è permessa a nessuno Stato. Il messaggio così trasmesso ha corretto, almeno verbalmente, l’impressione che talora Obama aveva suscitato. 
In realtà l’avvertimento non è stato solo un deterrente nei confronti di Putin, ma ha anche espresso la volontà di colpire Donald Trump che del capo russo è un ammiratore. Obama sa bene che se vincesse il repubblicano, la politica di appeasement internazionale e di riequilibrio sociale interno sarebbe compromessa, a cominciare dalla rinunzia all’uso della forza militare nel mondo, e alla fine della riforma sanitaria che ha dato l’assistenza a milioni di americani poveri. 

Attaccando Putin, Obama ha mirato a quel Trump che non perde occasione di glorificare lo stile del capo euroasiatico su cui grava il sospetto di interferire nella campagna elettorale americana con lo spionaggio elettronico. «Non è tempo degli uomini forti», ha detto a New York il Presidente che ha condannato il nazionalismo aggressivo e il populismo becero, entrambi fondamenta del trumpismo: «Una nazione che si circonda interamente di muri», come quello che si vuole costruire al confine del Messico, «non farebbe che imprigionare se stessa». 
Obama, riferendosi alle parole d’ordine di Trump pur senza nominarlo esplicitamente, ha rilevato l’inconsistenza di quella superiorità etnica che il candidato repubblicano evoca a ogni piè sospinto per solleticare l’orgoglio dell’americano bianco che equivoca sulla reale identità degli Stati Uniti. La nazione continentale non è quella immaginata dai suprematisti bianchi ma è stata e continua ad essere un Paese di immigrati grazie ai quali è divenuta la superpotenza nel Novecento. 

Con il discorso di rilievo internazionale a poche settimane dal voto dell’8 novembre, il Presidente ha voluto mettere il suo prestigio (58% di sostegno da parte degli americani) a servizio della democratica Hillary Clinton che, ad oggi, raccoglie scarse simpatie anche nella metà dell’elettorato che la vota soltanto per contrastare il repubblicano ritenuto un presidente potenzialmente pericoloso. 

Con i concetti della tradizione liberale americana, Obama ha voluto ribadire qual è il senso della sua eredità, come aveva fatto con l’intervista The Obama Doctrine rilasciata in aprile alla rivista “The Atlantic” . All’autoritarismo va contrapposto il liberalismo che si nutre di diritti umani, democrazia politica, e libero scambio internazionale. I Paesi più forti devono aiutare coloro che più ne hanno bisogno per contribuire a un equilibrio più sicuro per tutti. Parole sacrosante che ci auguriamo non siano smentite dal voto degli americani, oggi fortemente influenzato dalla paura.
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