Il caso Di Matteo/ Le porte girevoli che danneggiano le istituzioni

di Mario Ajello
3 Minuti di Lettura
Sabato 15 Luglio 2017, 00:05
L’anomalia che si ripete. Un film sbagliato al suo ennesimo remake. Prima si chiamava il caso Ingroia, adesso si chiama l’ingaggio di Di Matteo.

Il pm super-star dell’anti-mafia ha deciso di imboccare le porte girevoli. Sono quelle che attraverso le quali, in mancanza di un fermo, il magistrato diventa politico e poi può tornare a indossare la toga. Tra gli applausi dei fan. Come se non fosse esistito Montesquieu. Andò male il passaggio a Ingroia, con la sua mancata «Rivoluzione civile», magari andrà meglio a Di Matteo, il quale non esclude di accettare l’incarico come ministro dell’Interno in un eventuale governo targato M5S. Proprio il movimento che guida la Capitale d’Italia, dove il prossimo 25 luglio Di Matteo verrà insignito della cittadinanza onoraria. 

Insomma, dalla procura alla politica attiva, senza una pausa, senza un attimo di esitazione, senza fermarsi a pensare alla regola della separazione dei poteri. Anzi affermando: «L’impegno politico, per un magistrato, può rappresentare la linea ideale della prosecuzione del suo impegno in toga». Ma può un pm scendere in politica con un partito e continuare a fare il pm? Di Matteo dice di poterlo fare e infatti - invece di lasciare la toga nel momento stesso in cui annuncia di voler guidare un dicastero - assisteremo da qui alla chiusura del processo Stato-Mafia, prevista alla fine dell’anno, alla strana presenza di un ircocervo. Formato da un eroe pentastellato (già candidato alla presidenza della Repubblica e arrivò terzo dietro a Imposimato nella consultazione interna al movimento e diventato con Davigo il padre nobile del programma M5S sulla giustizia) e da un inquirente che in vista del futuro ingaggio non potrà che operare in tribunale anche pensando a quello. E se il processone, già claudicante dopo l’assoluzione di Mannino, quella di Mori e altre batoste, finirà in nulla, Di Matteo ugualmente farà il ministro? Se invece avrà un trionfo in tribunale, magari lo faranno premier? Per ora non parrebbe, perché Di Maio frena lo slancio politico del magistrato: «I nomi dei futuri ministri, che stanno circolando, sono fuorvianti». 

Ma il riscaldamento di Nino è cominciato. La legge per impedire il viavai giustizia-politica ancora non c’è e ora, dopo la staffetta tra Senato e Camera, la norma che mette qualche paletto alla questione è tornata a Palazzo Madama ma, tra ius soli e tutto il resto, non sembra ritenuta una priorità. E l’aggravante, perfino rispetto a un caso grave come è stato quello di Ingroia (il quale annunciò la sua candidatura pochi istanti prima di andare in Giatremala a combattere i narcotrafficanti), è che nel caso Di Matteo, stando ad oggi, nemmeno viene previsto un passaggio attraverso le urne, cioè quella eventuale investitura popolare che come minimo sarebbe richiesta. 

Così, l’istituzione giustizia viene piegata a usi impropri, e diventa un piedistallo per un ingaggio di partito. Che poi non è quello che aveva fatto una svolta anti-giustizialista?
© RIPRODUZIONE RISERVATA