Si tenta così di dare una risposta al problema della cosiddetta «gogna mediatica» che ciclicamente alimenta polemiche. Il testo inserisce dei vincoli alla trascrizione delle conversazioni nelle richieste dei pm e nelle ordinanze dei giudici: «Quando è necessario, sono riprodotti soltanto i brani essenziali», dispone infatti il provvedimento. Non vengono però compromessi i virgolettati dei colloqui captati, che in una bozza preparatoria del decreto erano stati vietati e sostituiti da sunti delle conversazioni: dopo il confronto con avvocati e magistrati, questa previsione è stata cassata. Viene poi istituito presso l'ufficio del pm un archivio riservato delle intercettazioni la cui «direzione» e «sorveglianza» sono affidate al procuratore della Repubblica e il cui accesso - registrato con data e ora - sarà consentito solo a giudici, difensori e ausiliari autorizzati dal pm.
Quanto ai mezzi per intercettare, si delimita l'uso dei «trojan», ossia i captatori informatici, in pc o smartphone, che «pur ampiamente praticato nella realtà investigativa, non è stato in precedenza oggetto di alcuna regolamentazione a livello normativo», riporta la relazione illustrativa che accompagna il decreto.
Ora l'obiettivo è quello di consentirne sempre l'impiego, senza particolari vincoli, per i reati più gravi, in primis terrorismo e mafia, prevedendo invece che per gli altri reati debbano essere esplicitamente motivate, nei decreti di autorizzazione, ragioni e modalità. La riforma semplifica inoltre l'impiego delle intercettazioni nei reati più gravi contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici ufficiali, uno strumento per rendere più efficace il contrasto alla corruzione. Fatto salvo il diritto di cronaca, è previsto il carcere fino a 4 anni per chi diffonde riprese audiovisive e registrazioni di comunicazioni effettuate in maniera fraudolenta per danneggiare «la reputazione o l'immagine altrui».
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