Ashley, una notte di cocaina e violenza ma il movente resta un mistero

Ashley, una notte di cocaina e violenza ma il movente resta un mistero
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Venerdì 15 Gennaio 2016, 08:22 - Ultimo aggiornamento: 16 Gennaio, 13:33

dal nostro inviato Nino Cirillo
FIRENZE - Perché l'ha uccisa? Non bastano le nove paginette del decreto di fermo a spiegarlo, tanto che i due pm, Solinas e Turco, a un certo punto alzano le mani in segno di resa: l'ha fatto «per ragioni e motivazioni che allo stato appaiono non completamente chiarite...».

Ma per il resto è un perfetto, tragico gioco di incastri. Ci sta tutto dentro questo senegalese di 28 anni, sfrontato, sfortunato o forse soltanto poco furbo. E bellissimo e altissimo, con nomi e cognome quasi impronunciabili, Cheik Tidiane Diaw. Un clandestino praticamente sbucato dal nulla, tradito pure da un orecchino che luccicava troppo, pasticcione al punto da piazzare la sua sim nel telefonino della donna che ha appena ucciso.

ALLE QUATTRO DI MATTINA
Si presenta sulla scena del Montecarla alle quattro del mattino di venerdì 8 gennaio. Il locale chiuderà due ore dopo, ha tutto il tempo di avvicinare la sua preda. Ashley abbocca subito, non sta mica a sentire la sua amica Jade che prova disperatamente a portarla a casa: «Attenta, è una brutta persona...». Ma Ashley ha già deciso, l'amica riferirà alla polizia che da quel senagalese s'era fatta agganciare «verosimilmente per acquistare cocaina».
Le due amiche arriveranno quasi a litigare, come ha raccontato Giulia, la cameriera del Montecarla, alla polizia e a diverse tv. Ma alla fine Jade se ne va. Il resto lo riferisce il buttafuori del locale, un certo Diuf Issa: la coppia va via che sono ormai quasi le sei, l'ora della chiusura. Ashley e il senagalese clandestino, e le tredici telecamere che implacabilmente ne seguiranno le mosse fino in via Santa Monaca numero 3.

Sono imbottiti «di alcol e di altro», come ha testualmente riferito in coinferenza stampa il procuratore della Repubblica di Firenze Giuseppe Creazzo. Infilano la chiave nella toppa del portone che è giorno fatto, le sette e mezza. Lo dicono i filmati -«un uomo alto di colore e una donna molto più bassa»-, ma lo dice anche una testimone oculare, una donna del quartiere. Fanno l'amore, perché così raccontano i risultati delle indagini, e poi scoppia una lite, lui la «colpisce ripetutamente sbattendole la testa contro una superficie dura e soffocandola, stringendole il collo con un oggetto...».

 

Sono le 9.20 quando dal telefonino di Ashley parte l'ultima telefonata, e sicuramente non l'ha fatta lei, viene digitato un «11», come se il senegalese a un certo punto si sia deciso a chiedere aiuto, «evidentemente un ultimo disperato tentativo di contattare 112, 113 o 118», almeno secondo i pm. Ma quella telefonata non partirà mai. E Cheik Tidiane rimarrà in casa di Ashley altre lunghe ore, accanto al suo corpo.

Perché c'è un altro testimone che lo vede uscire dal portone, ma ormai «nel primo pomeriggio», e soprattutto sono le 14.31 quando lui infila la sua sim nel telefonino di Ashley e ce la fa rimanere fino alle nove di sera. Proprio in quel momento, quindi, deve aver deciso di tagliare la corda. Ma tutto il tempo avuto a disposizione non gli è bastato per ripulire la scena. Rimangono nel water, senza che lui pensi di tirare lo sciacquone, un preservativo e una cicca di sigaretta. Saranno la sua condanna.

Si presenterà il giorno dopo in Questura, convocato insieme ad altri, e fumerà un'altra sigaretta, e butterà la cicca in terra. Questa è il mozzicone che hanno confrontato con il preservativo, questo è il dna che l'ha portato in carcere, come la tazzina di caffé di Donato Bilancia. Ma ne fa altri di errori: cerca di confondere una notte con un'altra, di crearsi un debolissimo alibi, e questo gli costera un'aggravante. Continuerà a portare lo stesso orecchino «brillante» di quella notte e un altro testimone, un vicino di casa di Ashle convocato anche lui in Questura quella stessa mattina, lo riconoscerà. Intercettato, continuerà a tempestare di telefonate un carrozziere per riavere al più presto l'auto in riparazione, perché evidentemente stava pensando a una fuga.

«MICA SONO UN CANE»
È tutto chiaro, insomma. Resta da capire solo perché l'ha fatto. Lei che vuole cacciarlo di casa, lui che protesta: «Mica sono un cane». Almeno così ha raccontato. Ma non basta, non può bastare.

 

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