I summit precedenti/ Mega delegazioni con costi stellari e zero risultati

di Antonio Galdo
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Martedì 1 Dicembre 2015, 00:43
Il rischio flop è molto alto. Al netto del solito fiume di dichiarazioni solenni, di appelli per il Pianeta a rischio e della rappresentazione di scenari apocalittici, non sempre fondati.

Il vertice di Parigi sul clima rischia di fare la stessa fine del precedente summit di Copenaghen, nel 2009. Un fallimento. In sei anni la consapevolezza dei rischi è aumentata, ma allo stesso tempo, senza scomodare troppo le leggende del catastrofismo di maniera, stiamo tutti facendo i conti con una Terra surriscaldata. I primi 14 anni del secolo sono stati i più caldi della storia, e il 2015 sarà l’anno record.

Questa è la realtà dei fatti. A parte i 140 milioni di uomini e donne che, tra il 2008 e il 2013, hanno abbandonato la casa e il Paese di origine per effetto di disastri naturali collegati all’innalzamento delle temperature. Un popolo biblico di migranti climatici, che si sommano ai cittadini in fuga per i conflitti etnico-religiosi e per la povertà. L’annunciato fallimento di Parigi, sul quale ci farebbe piacere essere smentiti, è legato a due fattori, uno di merito e l’altro di metodo. Sul primo punto non ci sarà mai un reale passo avanti senza un accordo preliminare tra i grandi paesi inquinatori del mondo: Cina, India e Stati Uniti.

La Cina vive l’incubo dell’autodistruzione per effetto dello smog: Pechino è una metropoli ormai invivibile, dove spesso le scuole sono chiuse e gli anziani invitati a non uscire di casa per le nubi tossiche che avvolgono le città e avvelenano l’aria. Il governo di Pechino ha fatto alcune cose importanti, per esempio la chiusura di alcune centrali a carbone, il tetto alle immatricolazioni di nuove auto, i massicci investimenti (83 miliardi di dollari) nelle rinnovabili. Ma su un punto non è disposto a fare alcuna concessione: il no secco a qualsiasi accordo internazionale vincolante e oggetto di ispezioni.

L’India fa ancora peggio: la sua industria gira grazie al carbone, e il governo di New Delhi non è pronto a una vera politica di riconversione energetica che tra l’altro ha costi molto alti. Barack Obama ha capito la musica, e poiché non vuole tornare da Parigi a mani vuote, ha cercato già nel primo giorno del vertice francese un’intesa a due con la Cina. Ma è lo stesso presidente degli Stati Uniti ad essere in una condizione di debolezza, il suo mandato è ormai in scadenza, il suo successore non arriverà prima del gennaio del 2017 e, se dovesse essere un repubblicano, difficilmente confermerà le ambizioni green di Obama.

Con i tre principali attori della partita zoppi, per motivi diversi, il vertice di Parigi non potrà che concludersi con impegni generici, lasciando tutti liberi di interpretarli come ciascuno vorrà. Per il futuro, sarebbe meglio sospendere i faraonici summit fino a quando non ci sarà un’intesa preliminare tra i grandi inquinatori del mondo. Quanto al metodo, per ridurre davvero le emissioni di gas serra e impostare nuove, condivise politiche energetiche, bisognerà arrivare a una forma giuridica di eventuali accordi. Non più dichiarazioni, anche solenni, sottoscritte senza alcun rischio di infrazione, ma veri e propri Trattati, vincolanti e con relative sanzioni.

Solo questo tipo di strumenti potranno dare credibilità alla lotta contro il surriscaldamento. E, a proposito di credibilità, speriamo che i 25mila delegati da tutto il mondo, siano in grado di dare almeno una prova di sobrietà. A ogni vertice sul clima si ripete lo scandalo di conti stellari per lunghi soggiorni in alberghi di lusso, pranzi e cene a base di caviale e champagne, escort pagate con le note spese. Segnali di una nave che ricorda l’atmosfera sul Titanic prima di affondare.