Expo 2030, candidature a confronto: ecologia e inclusione le carte italiane per vincere la sfida

Nel progetto il parco solare urbano più grande al mondo, riuso di materiali e una capacità di accoglienza da 200mila posti letto

Expo 2030, candidature a confronto: ecologia e inclusione le carte italiane per vincere la sfida
di Francesco Bechis e Andrea Bulleri
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Mercoledì 21 Giugno 2023, 00:32

«Roma è talmente bella che sarà difficile competere, per le altre città». Al netto degli elogi incassati dalla Capitale al termine della visita degli ispettori del Bie lo scorso aprile, sono molti i punti di forza che gli ispettori del Bureau International des Expositions hanno messo nero su bianco nella scheda di valutazione sul progetto italiano per Expo 2030. Che rendono la candidatura di Roma vincente sotto (almeno) tre fronti, che secondo chi segue il dossier possono essere riassunti sotto tre parole d’ordine: capacità di accoglienza, sostenibilità ambientale e inclusività. 

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Sul primo punto, la Capitale – coi suoi 15 milioni di turisti nel 2022 – non ha rivali. Roma, viene sottolineato nel rapporto stilato dal Bie, vanta infatti una rete di strutture ricettive in grado di garantire già adesso qualcosa come 200mila posti letto tra alberghi, bed & breakfast e appartamenti privati, per ospitare senza problemi visitatori da tutto il mondo. «Numeri con cui nessun altro può competere», rivendicano orgogliosi dal Comitato promotore. E poi ci sono le infrastrutture per raggiungere la città e l’area dell’esposizione, come gli aeroporti (con gli scali di Fiumicino e Ciampino che assommano in totale 50 milioni di passeggeri all’anno), il prolungamento della metro C fino a Tor Vergata e la chiusura dell’anello ferroviario. 

E se dal Bie ripetono che Expo, pur durando soltanto sei mesi, dovrebbe dar vita a progetti ben più duraturi, in grado di integrarsi nel tessuto urbano e garantire sviluppo per molti anni a venire, dopo la manifestazione, la Capitale risponde con un grande progetto di recupero di un’area in parte dismessa, quella di Tor Vergata. Dove verrà costruito il parco solare urbano più grande al mondo: 150mila metri quadri con una capacità di produzione di energia di 36 megawatt, e un contributo significativo al processo di decarbonizzazione. E poi si prevede di fare un largo impiego di materiali riciclati, per dar vita a strutture in grado di rivitalizzare un quadrante della città. 

Ma rendere forte l’opzione Roma c’è anche il capitolo inclusività.

Da intendere sia come leitmotiv di una manifestazione che accoglie tutti (e che rispetta i diritti di tutti, a prescindere dall’orientamento religioso e sessuale), sia come capacità di valorizzare tutti i Paesi allo stesso modo. A ogni ospite, infatti, il progetto italiano garantisce un padiglione con la medesima visibilità. Oltre a una porta d’accesso a un mercato ambito, quello europeo, nel quale invece molti Paesi medio piccoli faticherebbero a entrare se la manifestazione si svolgesse altrove. 

RIAD. La città è “isolata” dal deserto. E zero diritti per i lavoratori​

Una potenza di fuoco difficile da uguagliare, in termini di risorse disponibili. Ma anche molti aspetti controversi di cui è impossibile non tenere conto. A cominciare dalle ombre sul rispetto dei diritti umani. Sono molti i punti che, nella sfida di Expo 2030, potrebbero giocare a favore di Riad. Ma altrettante, o forse ancora di più, le incognite che invece sembrano destinate a pesare contro l’Arabia saudita. Come quelle sollevate da dodici tra le più conosciute organizzazioni non governative europee, che in una lettera aperta ai commissari del Bie hanno chiesto al Bureau di «dichiarare la candidatura saudita non ammissibile». «L’Arabia Saudita – attaccano le onlus – vuole usare Expo per ripulire la sua immagine sui diritti umani». Un tema già sollevato anche in occasione dei mondiali del Qatar, dove le stime parlano di 6.500 lavoratori morti per costruire gli impianti della manifestazione.
Il sindaco di Roma Gualtieri solleva invece un altro rischio: quello di tenere l’Expo in un Paese «agli ultimi posti delle classifiche mondiali per libertà di stampa». Che oltretutto – aggiungono altri – discrimina chi ha un orientamento sessuale o religioso diverso da quello dominante. Non bastassero gli aspetti etici, però, al Bie vengono segnalati anche rischi connessi con il progetto stesso. Ovvero il fatto che l’area destinata a Expo possa trasformarsi, dopo il 2030, in una grande cattedrale del deserto, dal momento che il parco si trova a una distanza considerevole sia dalla stessa Riad che da altre città in grado di offrire sbocchi commerciali ai Paesi partecipanti. Senza contare l’affollamento di grandi eventi a cui rischierebbe di andare incontro Riad (in corsa anche per i mondiali di calcio 2030). Né aiuteranno gli strascichi del Qatargate: sebbene l’Arabia saudita non sia coinvolta, il timore che la scelta possa essere influenzata dalle infinite disponibilità economiche del Paese difficilmente non giocherà un ruolo nell’assegnazione.

BUSAN. La Corea punta sulla tecnologia Costi proibitivi per gli espositori​

Lo sviluppo tecnologico (e l’appoggio delle grandi multinazionali del settore). Eccoli, gli asset strategici su cui punta Busan per provare ad accaparrarsi Expo 2030. La seconda città della Corea del Sud, coi suoi 3,6 milioni di abitanti, non può contare sull’appeal turistico di Roma. Né sulla disponibilità finanziaria dell’Arabia saudita. Ecco perché per convincere il Bie il governo coreano ha elaborato un progetto incentrato sui benefici che la tecnologia, uno dei settori chiave del Paese, può portare all’umanità. Dalla sua, Seoul non a caso ha l’appoggio di molte big tech nazionali, a cominciare da Samsung e Lg. Ma anche se il progetto consegnato al Bureau prevede di attrarre un gran numero di visitatori (ben 34,8 milioni), c’è chi fa notare che difficilmente quel traguardo potrebbe essere raggiunto. «Busan – spiega chi segue la pratica di Expo – ha provato a rilanciarsi da un punto di vista turistico diventando una sorta di “Las Vegas” coreana. Ma a livello internazionale, non è conosciuta quanto Roma». La Capitale insomma, da questo punto di vista non avrebbe nulla da temere. 
C’è poi da considerare che per molti dei Paesi espositori più piccoli, la Corea del Sud è una destinazione molto più distante – e quindi costosa da raggiungere – rispetto all’Italia. Un aspetto che potrebbe pesare, quando (a novembre) si arriverà alla conta dei voti. 
Infine, il capitolo sui diritti dei lavoratori e delle minoranze. Un tema non così caldo come in Arabia Saudita, ma che comunque esiste anche in Corea del Sud. Dove il governo ha da poco presentato un progetto di legge per portare la settimana lavorativa a 69 ore, contro le 52 attuali, sollevando le proteste delle organizzazioni dei sindacali. Mentre molte onlus denunciano le discriminazioni che ancora (nonostante la Costituzione le vieti esplicitamente) colpiscono principalmente gli stranieri, le donne e gli omossessuali. 

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