Gianni Rivera: «Allenerei la Nazionale, ma sono scomodo». Gli 80 anni del Golden boy

«In Italia c’è bisogno di gente pensante. In campo spesso mi sentivo un alieno ma in Parlamento ero ancora più solo»

Gianni Rivera: «Allenerei la Nazionale, ma sono scomodo». Gli 80 anni del Golden boy
di Marco Ciriello
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Giovedì 17 Agosto 2023, 00:34 - Ultimo aggiornamento: 18 Agosto, 09:05

Troppo elegante, troppo distante, troppo parlante. Gianni Rivera è un sentimento, o lo si sente o no. In campo è stata la prima vera esplicitazione dell’estetica calcistica – complice la tivù – e poi anche di quella emotiva: dopo il gol del quattro a tre alla Germania ai mondiali in Messico nel 1970.

Ha vinto tutto: dal Pallone d’oro (1969) alla Coppa intercontinentale, passando per quella dei Campioni. Due volte padre, eretico, estremista, ma parlamentare Dc. Un ossimoro continuo. A Fellini preferiva Bergman, e a lui Ferruccio Valcareggi preferiva Sandro Mazzola. È stato l’incarnazione del miracolo pallonaro, senza mai farsi populista, troppo aristocratico per una piazza: per Gianni Brera era un arrampicatore sociale portato per essere un causidico, per Luciano Bianciardi un poeta, per Diego Abatantuono un santo che fa miracoli, per Oreste del Buono l’unico calciatore italiano fuori dalle dinamiche machiavelliche, per Gino Palumbo il più grande calciatore dal dopoguerra agli anni Settanta. A rivedere oggi le sue giocate sembra di leggere Alberto Arbasino: leggerezza, eleganza e fantasia in movimento, col pallone e senza. Il ragazzo Gianni Rivera compie ottant’anni, parlando di futuro, in un paese che sembra averne sempre meno, sarà che è figlio del Boom. 

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Che cosa ha fatto in tutti questi anni? 
«Dopo aver smesso di giocare, sono diventato vice presidente del Milan poi sono entrato in Parlamento per 22 anni, e dopo un passaggio in Comune allo Sport sono tornato al calcio in Federazione: passando dal settore giovanile al centro tecnico di Coverciano per 5 anni.

Ho preso i vari patentini per diventare allenatore professionista, e anche per la Nazionale italiana. Insomma, io ci sono. A maggior ragione oggi che ho il patentino da professionista. Dopo Ventura, il presidente Tavecchio mi offrì questa possibilità alla quale si opposero tutti coloro che erano legati all’associazione allenatori: peccato che questa regola l’abbiano applicata con qualche eccezione».


Mi dice l’eccezione? 
«È evidente, Roberto Mancini in serie A». 


Poserebbe nudo ancora una volta? Ha poi imparato l’inglese?
«Questa storia del nudo fu una punzecchiatura di Oriana Fallaci, mai pensato né mi è stato proposto. L’inglese l’ho imparato in Parlamento, ci fecero fare un corso». 


Chi è stato il Rivera della politica italiana: Moro, Berlinguer o Andreotti?
«Andreotti, stupiva di continuo, aveva anche autoironia, pensi alle sue battute sul potere». 


Cosa era peggio tra i congressi Dc e gli spogliatoi?
«Meglio i congressi, dove non andavo. Alla Dc ebbero l’intelligenza di candidarmi senza tessera, che non mi chiesero mai. Gli andava bene così. In parlamento ero più solo che in campo».


Ma Concetto Lo Bello lo incontrava mai? 
«In campo troppo spesso». 


Si incazza ancora?
«Se ci penso sì. E poi mi dico che col Var nella mia vita non ci sarebbe Lo Bello». 


Valeva la pena di preoccuparsi tanto per i calciatori per poi scoprire che l’Arabia, come la globalizzazione, avrebbe cancellato tutto?
«Vince solo il denaro e questo dice già quasi tutto. Abbiamo bisogno di persone che devono ragionare, sia che occupino un seggio in Parlamento e sia che si occupino di calcio. Su questo ho ancora molto da dire. Ma sono troppo scomodo. L’impressione è quella».


I morsi di Gianni Brera su di lei erano come le battute di Craxi su Andreotti o più Di Pietro vs Fanfani?
«Niente era come Brera. Era unico, e mi utilizzava. Tutti mi lodavano e lui andava contro, era una scelta, in fondo in fondo gli piacevo, forse anche più che agli altri». 


Nereo Rocco, Nils Liedholm e Bruno Tabacci sono i suoi padrini, come erano veramente con lei?
«Rocco ti metteva a tuo agio, con battute. Un buono. Liedholm era puro ghiaccio, con battute alla svedese, che pochi capivano. Più duro di Rocco. Tabacci è un furbo». 


Per molti lei era il salotto e Gigi Riva la savana, ha mai pensato di andare in Africa?
«Ci sono andato, diverse volte, per giri importanti, ma con la famiglia, niente a che vedere con Hemingway».


Tra Bergman e Fellini continua a preferire lo svedese o è arrivato un nuovo regista?
«Alla regia ora preferisco i compositori di musica da film, mio figlio, diplomato al conservatorio di Santa Cecilia in percussioni, mi ha aperto un mondo». 


Mi sta dicendo che oggi l’abatino Rivera sarebbe un Barella?
«Le sto dicendo che preferisco i compositori di musica da film. C’è cinema in Barella?»


Quando ha preso l’ultima volta il tram? 
«Nel dicembre del 1978, con Beppe Viola, per quell’intervista alla “Domenica Sportiva” divenuta un cult della televisione». 


Padre Eligio doveva diventare papa o avere una serie su Netflix come Muccioli?
«Padre Eligio ha fatto tanto per tanti ragazzi e va bene così, direi che ha fatto abbastanza per il bene della gioventù».


Se lei era già grande a venti anni ora che cosa è?
«Sono tornato piccolo per ricominciare! Ho il rimpianto di non aver allenato prima, non ho approfittato mai di niente. Io mi sentivo dirigente». 


Non è che si sentiva troppo intelligente?
«Non lo si è mai». 


Anche Mick Jagger compie 80 anni, chi ha corso di più tra voi due?
«Sul campo si corre sempre di più». 


Per Luciano Bianciardi lei era un poeta, mi dice la sua poesia preferita?
«“If” di Kipling, se come avverbio, non sé pronome riflessivo». 


Lei è nato ad Alessandria come Eco, tra scrivere “Il nome della rosa” e allenare la nazionale che sceglierebbe? 
«Allenare la nazionale è più facile e ci vorrebbe meno tempo». 


Si è mai sentito un alieno? 
«Qualche volta in campo mi sembrava di esserlo, ma sbagliavo, gli alieni hanno un’altra cultura».


Mi dice le prime tre cose che si possono fare in sei minuti valcareggiani?
«Nel calcio poco, devi essere fortunato. Fuori dal calcio tante cose. Basta non scegliere di buttarsi giù da una finestra. Ma saper aspettare i sei minuti successivi per fare meglio». 
 

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