Daniele Del Giudice era lo scrittore della luce. Malato da diversi anni, sabato avrebbe dovuto ricevere il Premio Campiello alla carriera. Era nato a Roma nel 1949, nel periodo del neorealismo o “neoespressionismo”, come lo chiamava Calvino, quando scrittori e registi, guardandosi intorno, circondati dalle macerie della guerra, cercavano di rappresentare la realtà con quel «senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero». Era stato proprio Calvino a tenerlo a battesimo, mentre pubblicava il suo ultimo romanzo (Palomar), ad accompagnare il suo esordio, Lo stadio di Wimbledon (1983, Premio Viareggio), scrivendone la quarta di copertina: «Questo romanzo racconta d’un giovane che si interroga su un certo personaggio, a una quindicina d’anni dalla sua morte; e va a ricercare gli amici e le amiche di gioventù, ora molto anziani».
Morto Daniele Del Giudice: lo scrittore aveva 72 anni ed era malato da tempo
Daniele del giudice, il ritratto dello scrittore
Il ritratto di quel personaggio, Bobi Bazlen, viene fuori attraverso i sospiri, le voci, le frasi a metà, i racconti di alcuni personaggi che il giovane ascolta e incontra prima a Trieste e poi a Londra, e tra i quali compaiono due donne, Ljuba e Gerti, che provengono dalle poesie di Montale.
Daniele Del Giudice morto, lo scrittore (autore di "Atlante Occidentale") aveva 72 anni
Il suo stile
E come scrive Scarpa nella prefazione dei racconti, pubblicati di recente da Einaudi (pp. 248, 19 euro), quella di Del Giudice è una sorta di «utopia malinconica», dove si immagina sempre l’avvicinarsi di due personaggi, appena scoprono di avere qualcosa in comune. Per Del Giudice, il volo, cui dedicherà un altro romanzo (Staccando l’ombra da terra, 1994), più che con le varie tecniche e con l’esperienza, aveva a che fare con il mito e con l’infanzia. E forse, per lui, rappresentava anche uno dei tanti modi, insieme alla scrittura, per allontanarsi dalla materia e avvicinarsi alla luce. Non è un caso che Einaudi, qualche anno fa, aveva pubblicato un “libro autoritratto” di Del Giudice, pieno dei suoi pensieri, delle sue riflessioni, delle sue manie, intitolandolo In questa luce. Questa luce, sì, che non illumina più i nostri gesti, gli oggetti che tocchiamo, i luoghi in cui viviamo, ma che dipende solamente da noi, è diventata un nostro prodotto.
Le paure dello scrittore
E in un’epoca di «totale visibilità», la più grande paura di Del Giudice, che era anche una delle paure di Calvino, era quella di non riuscire più a vedere e a immaginare nulla. Il suo racconto più bello e più commovente, Nel museo di Reims, comincia così: «È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura». La storia di Barnaba, che cammina per il museo con un passo lento, perché gli altri non si accorgano della sua condizione, che presto la luce diventerà solo un ricordo. Solo una donna di nome Anne se ne accorge, si avvicina a lui, lo accompagna davanti ai quadri, gli fa da guida, e guardandolo bene gli dice: «Io non so come lei veda, ma il suo sguardo si vede così tanto. Lei è tutto lì, sul bordo dei suoi occhi». A Barnaba non importa che quei quadri siano veramente così, come Anne li racconta, tanto sa che presto i ricordi saranno tutt’uno con la fantasia. Allora aspetta la notte per pensare a lei, per riconoscersi come tutti gli altri, che non riescono a vedere per una circostanza esterna, e si prepara al buio, quello di chi muore o di chi sta per cominciare a scrivere, e intanto aspetta la luce delle parole.