Zygmunt Bauman: «Con le nuove tecnologie non diventeremo più felici»

Zygmunt Bauman: «Con le nuove tecnologie non diventeremo più felici»
di Roberto Bertinetti
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Martedì 10 Gennaio 2017, 01:01 - Ultimo aggiornamento: 12 Gennaio, 20:32
«Non sarà certo l’impiego su vasta scala delle nuove tecnologie a favorire lo sviluppo delle aree più arretrate del pianeta. Al contrario, è invece facile prevedere che i processi di globalizzazione in atto contribuiranno ad accentuare le differenze tra i paesi ricchi e quelli poveri».

Zygmunt Bauman aveva chiarito un paio di anni fa a Bologna, intervenendo a un convegno sul welfare, i motivi che gli impedivano di essere ottimista sul futuro dell’Africa, dell’Asia o dell’America Latina. Il grande studioso polacco, trasferitosi a Leeds, in Gran Bretagna, dall’inizio degli anni Settanta, spiegava che la disoccupazione rappresenta da almeno due secoli il volto oscuro della modernità, e che la flessibilità da molti invocata non costituisce la risposta più efficace per risolvere il problema. 

«In passato - aveva aggiunto durante una conversazione a margine del convegno - chi non risultava indispensabile in Europa poteva emigrare in altri continenti, le difficoltà locali trovavano sempre soluzioni globali. Oggi, al contrario, cerchiamo soluzioni locali per difficoltà globali e alcuni ipotizzano addirittura la chiusura delle frontiere. Senza capire che i processi migratori vanno ormai in tutte le direzioni, e che la sovrabbondanza di risorse umane è il prezzo che paghiamo alla modernità sin dall’epoca della rivoluzione industriale».

Professor Bauman, si può invertire questa tendenza? 
«Non credo. In primo luogo perché solo qualche utopista può davvero credere che sia possibile frenare la modernità. E poi perché non esistono più terre al riparo dalla modernità, dove far confluire quelli che io chiamo rifiuti umani. Occorre invece chiedersi come impedire che la modernità produca tensioni sociali intollerabili. Un tempo l’esclusione dai processi produttivi in Europa o in America era momentanea, ora rischia di diventare permanente, equivale ad una vera e propria condanna a morte per milioni di persone».

Lei insiste spesso sui rischi dello Stato “leggero”. Quali sono le conseguenze di questa tendenza?
«Il logoramento dello Stato è forse il fenomeno che mostra con maggiore evidenza la debolezza della politica rispetto all’economia. In passato la stabilità sociale poggiava sulla fabbrica di tipo fordista e sull’autorità dello stato, architetto e amministratore dell’ordine. Nel mondo globale il lavoro viene organizzato su basi diverse e lo stato non ha più le funzioni di un tempo. Il risultato, a mio giudizio, è un logoramento dei vincoli sociali, al quale si accompagnano un individualismo sempre più esasperato e il tentativo di cancellare le garanzie offerte dal sistema del welfare messo a punto nel corso della seconda metà del Novecento».

Quale funzione ha svolto il welfare durante il secolo scorso?
«Concordo con l’ipotesi avanzata da Freud quando, in un saggio del 1929, sosteneva che l’uomo contemporaneo poteva trovare un equilibrio se accettava di scambiare almeno una parte delle sue speranze di felicità per un po’ di sicurezza. Il welfare nasce proprio su questo baratto».

Cosa la spinge a pensare che l’individualismo rappresenti un pericolo per la stabilità sociale? 
«Ho ricordato più volte che gli ingegneri calcolano la portata di un ponte misurando la forza del suo pilone più debole. Noi dovremmo fare lo stesso con la società. Se i vincoli di solidarietà vengono tagliati aumenta la conflittualità, come dimostrano tutti gli indicatori dei paesi più sviluppati. Senza contare che, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, gli imperativi morali e l’istinto di sopravvivenza hanno obiettivi comuni: o ci prendiamo cura della dignità di ogni abitante del pianeta o moriremo insieme. La globalizzazione ci ha reso interdipendenti, quanto accade in Asia, in America Latina o in Africa ha conseguenze dirette sulla vita degli abitanti dell’Europa e degli Stati Uniti».

Come spiega l’importanza che sta assumendo il recupero di un’identità su base territoriale o religiosa?
«Il nostro interesse per l’identità costituisce, a mio giudizio, la prova più evidente del bisogno, forse inconscio ma senza dubbio disperato, di ricostruire quei legami sociali che appaiono lacerati. In qualunque modo venga proposta, la ricerca dell’identità non è mai una faccenda di carattere privato e neppure il residuo di un’epoca arcaica non del tutto estirpata ma condannata a estinguersi con il progredire della globalizzazione. Al contrario, rappresenta il sottoprodotto delle pressioni globalizzatrici e delle tensioni che esse generano».

Ritiene possibile eliminare almeno in parte queste ingiustizie? 
«Ma io, a dispetto di tutto, sono ottimista. Per un motivo molto semplice: neppure i paesi più ricchi e sviluppati possono davvero credere di sopravvivere a un conflitto globale che li veda opposti alla maggioranza povera e disperata degli abitanti del pianeta».
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