Vicari: «Basta potere, è ora di parlare di noi»

Vicari: «Basta potere, è ora di parlare di noi»
di Malcom Pagani
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Mercoledì 3 Maggio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 8 Maggio, 21:52

Quattro figli, un marito disoccupato, un’amica fedele, 800 euro al mese di stipendio per ripulire il bancone di un bar e la capacità di sorridere comunque. Isabella Ragonese, protagonista dell’ultimo film di Daniele Vicari, all’esistenza, non ricambiata, guarda con ottimismo. «Con incosciente vitalità» corregge Daniele Vicari, 50 anni, regista di Diaz e un nuovo film in sala da giovedì, Sole, cuore, amore, la cui capacità consolatoria si esaurisce nel titolo: «Per scriverlo ho impiegato solo due giorni.



Di solito prima di girare mi preparo per mesi perché mi piace parlare soltanto di ciò che conosco, stavolta non ce n’è stato bisogno. Questa vicenda di donne schiacciate dal lavoro che alle angherie e alle ingiustizie rispondono con forza d’animo, la conoscevo a memoria. È la parabola di mia cugina, di mia sorella e di mia madre che in Svizzera, dove incontrò mio padre e i nostri connazionali non erano certo trattati con i guanti bianchi, ripuliva i fondi delle bottiglie in fabbrica senza protezioni. A 19 anni le caddero tutte le unghie della mani, tornò al suo paese e aprì un bar. La sua storia, in piccolo, è la storia d‘Italia». 

Che cosa voleva dire con Sole, cuore, amore? 
«Ho cercato di mettere insieme il neorealismo e il post-moderno raccontando come la fatica oggi sia senz’altro interclassista, ma che la differenza tra chi sviluppa lavoro e guadagna e chi fa la stessa cosa senza guadagnare, consista nel vivere oppure nel morire». 

La chiamano globalizzazione. 
«Oggi la parola fa ridere perché tutti abbiamo capito che le nostre vite sono tutte a perdere. Per questo i poveri ci fanno paura. Ci ricordano chi eravamo, ci spaventano, ci riportano al nostro recente passato». 

Come si racconta l’Italia? 
«Solo attraverso i sentimenti, altrimenti creando categorie astratte sulle quali discutere, a capirla non riusciremo mai. Il desiderio di felicità e benessere si scontra con una struttura sociale di una rigidità assoluta, ma volersi bene è l’unico modo per farcela. Dobbiamo ammettere che a volte i sentimenti non bastano, ma non è una giustificazione abbastanza buona per arrendersi».

Qual è il limite dell’attuale cinema italiano? 
«Essersi innamorato della narrazione del potere. Re, regine, politici, papi, gangster. I nostri sottoproletari sono descritti solo come gente che ha una pistola in fondina e mezz’etto di Cocaina nelle mutande. E anche quella è una descrizione che strizza l’occhio al potere. E come dire: “Puoi farti strada solo con un’arma”. I personaggi di Sole, cuore, amore sono lontani dal potere. Subiscono le estreme conseguenze di una nuvola che non sanno né afferrare, né definire». 

Il cinema e il potere sono un binomio inscindibile. 
«Ma in un film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il potere era incarnato da un uomo d’ordine che del “Io sono io e voi non siete un cazzo” faceva il proprio vessillo ideologico da sventolare davanti al mondo. Oggi il potere è indefinibile, liquido, imprevedibile. E a differenza di ieri, restituisce un solo risultato possibile: soccombere».

Con Sole, cuore, amore lei rinnova il sodalizio con Procacci. 
«Per produrre Diaz, un film in cui tutti abbiamo messo in gioco qualcosa, Domenico ha messo sul piatto, letteralmente, la sua società di produzione. Io, divorato dal “mostro”, la mia vita lavorativa e familiare. Quando ci siamo incontrati di nuovo, non l’ho visto dubitare un solo secondo. Sapeva che questo era un film urgente e l’ha prodotto. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Magari è l’ultimo film in assoluto che facciamo”». 

In realtà preparate una serie su Stefano Cucchi.
«Abbiamo preso spunto da “Il corpo del reato” di Carlo Bonini e racconteremo la vicenda Cucchi con la giusta complessità. Non soltanto la storia del massacro di un ragazzo quindi, ma una descrizione di una società, la nostra, che non tollera la diversità, la rimuove e non sa gestire o meglio si rifiuta di gestire il conflitto. La nostra moderna tragedia». 

Qual è la cosa più interessante dell’attuale cinema italiano? 
«La produzione dei documentari che stanno cambiando il volto del nostro cinema. Ne facciamo 600 all’anno, una cifra a cui Francia e Germania messe insieme non arrivano. Per me comunque tra girare un doc o un film di finzione, non esiste alcuna differenza». 

E in cosa esiste invece? 
«Nelle priorità della vita.

Girare un film è importante, prendere un gelato con mia moglie e mia figlia, vale molto di più».

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