La trasformazione dell'Occidente per il filosofo Emanuele Severino: «Il futuro si crea se non pensiamo solo al presente»

La trasformazione dell'Occidente per il filosofo Emanuele Severino: «Il futuro si crea se non pensiamo solo al presente»
di Paolo Di Paolo
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Lunedì 28 Dicembre 2015, 23:48
«Oggi si tende a diffidare delle previsioni a lungo raggio: l’atteggiamento generale è quello di concentrarsi sulla soluzione dei problemi immediati. Ma in questo modo il pericolo non è risolto; viene solo allontanato, differito di poco». Emanuele Severino, uno dei maggiori filosofi italiani, analizza il nostro rapporto con il futuro, con la volontà e la capacità di progettarlo: «In nome della concretezza alla quale si ispira anche il discorso politico, ci limitiamo a previsioni a breve termine, ma non è detto che sia un bene. Provo a spiegarmi con un esempio: se in una nave che affonda l’intero equipaggio è concentrato sulla riparazione della falla, non rimane più nessuno nella cabina di pilotaggio, e si perde di vista la rotta, il progetto relativo al viaggio. Nella cultura contemporanea le previsioni sono per lo più condotte nell’ambito della probabilità, basate dunque su leggi statistiche. Non toccano la questione della direzione del mondo, la tendenza fondamentale del nostro tempo».

Molti leggono il nostro tempo attraverso la lente della sfiducia, del disincanto… «In realtà stiamo vivendo un tempo che è ben lontano dall’essere grigio, povero. Forse è anzi il più ricco della storia dell’uomo, ed è il tempo in cui si rende sempre più visibile l’addio dell’uomo occidentale alla propria tradizione. Benché sia ormai in terza o quarta posizione nelle graduatorie della forza demografica ed economica, l’Occidente, con la sua densità pratico-concettuale, ha conquistato il mondo».



È vincente e sconfitto allo stesso tempo, quindi? «Provo a riassumere brutalmente cose ovvie. Il senso centrale di quello che l’Europa era, si è travasato negli Stati Uniti e in Australia. La rivoluzione sovietica è essenzialmente occidentale: senza il marxismo non ci sarebbe stato Lenin, e il marxismo sarebbe stato impossibile senza l’idealismo tedesco e Hegel. In Sudamerica sono tuttora evidentissime le tracce della cristianizzazione operata dagli spagnoli. In Cina esiste una sorta di simbiosi tra comunismo e capitalismo, ed entrambi i fattori sono di matrice occidentale. L’India è diventata una delle maggiori democrazie planetarie, concetto ancora una volta occidentale, greco antico. La tradizione dell’Occidente è da un lato quella vetero e neo-testamentaria che ha dato luogo all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam; dall’altro lato sta il ceppo determinante della filosofia greca – questo chiarore straordinario che si produce in Grecia cinque secoli prima di Cristo: una lotta dell’uomo contro la morte, guidata non dal mito ma dalla verità».

L’atteggiamento critico, la volontà di verità: è a questo che l’Occidente dice addio? E perché? «Il nostro tempo volta le spalle alla tradizione perché si rende conto che le realtà eterne, affermate dalla tradizione stessa come i luoghi per salvarsi dalla morte, sono impossibili. Se esiste il divenire non può esistere l’eterno, se esiste il mondo non può esistere Dio. Lo spiego con un esempio: uno stato totalitario, se da un lato riconosce l'esistenza del tempo e del divenire, dall’altro lo nega, è appunto totalitario perché dice al cittadino: domani, fra un mese, fra un anno, nel futuro tu dovrai adeguarti alle leggi che io ti impongo. Lo stato totalitario tratta il futuro come luogo che dovrà sottostargli, lo occupa con le sue leggi. Alla radice delle guerre che hanno portato alla distruzione dei totalitarismi del Novecento sta questa contraddizione. Ed è in sostanza la stessa che riguarda l’idea di Dio, la sua natura assolutamente totalitaria. Sarebbe assurdo immaginare un Dio che guardando il futuro dica: chissà come andranno le cose».

In molte sue opere lei ha indicato nella tecnica la responsabile dell’addio dell’Occidente alla sua tradizione. «L’abbandono degli eterni della tradizione dice alla tecnica: puoi andare avanti senza limiti. Certo, già Keynes diceva che la tecnica può realizzare il paradiso in terra (si riferiva ai bisogni primari). Potrebbe farlo anche oggi, se non fosse condizionata dagli interessi della gestione capitalistica che gli impediscono di risolvere i problemi fondamentali della razza umana. In ogni caso, la felicità prodotta dalla tecno-scienza è una felicità basata su una logica statistico-probabilistica, su una forma di ragione ipotetica. La situazione in cui l’uomo raggiungerà la forma di benessere mai raggiunto sarà fondata su una probabilità, dunque su una non verità assoluta. Quando siamo felici, temiamo di perdere la felicità, e se lo temiamo è perché non siamo garantiti nel nostro possesso di essa. Il paradiso della tecnica, non potendo garantire la felicità che elargisce, è il luogo in cui va crescendo l’angoscia della morte; è destinato cioè a trasformarsi in un inferno in cui i popoli si rendono conto che manca loro quel che più conta, la garanzia della loro felicità. Nell’attimo in cui raggiunge il suo culmine – pur avendone avuto la pretesa – la tecnica non ha l’ultima parola».

Oltre dieci anni fa lei si è occupato, in “Dall’Islam a Prometeo”, del rapporto fra Islam e tecnica. «L’Islam è forte in quanto fede nella propria tradizione, ma la sua volontà di dominio non può prescindere dall’uso razionale della tecnica. La stessa volontà del terrorismo è quella di uscire da uno stadio artigianale, acquistando un carattere tecnologico-industriale. Ma se la tecnica è nemica della tradizione, il grande nemico dell’Islam si annida proprio nella tecnica, è lì il pericolo per la sua stessa sopravvivenza».
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