Parise, o l’arte di dire bugie: così Raffaele La Capria ha raccolto i ricordi dei suoi più cari amici scomparsi

Parise, o l’arte di dire bugie: così Raffaele La Capria ha raccolto i ricordi dei suoi più cari amici scomparsi
di Raffaele La Capria
3 Minuti di Lettura
Venerdì 29 Aprile 2016, 01:16 - Ultimo aggiornamento: 30 Aprile, 20:17
Da oggi in libreria “Ai dolci amici addio”, di Raffaele La Capria, galleria di ritratti dedicati ad amici scomparsi. Per concessione delle edizioni Nottetempo anticipiamo il capitolo su Goffredo Parise


Scesi le scale dell’ufficio e mi fermai da Rosati, ero seduto lì fuori a un tavolo quando con mia sorpresa mi si presentò davanti Goffredo Parise, che conoscevo solo di nome e che molto ammiravo. Mi sorrise, mi tese la mano dandomi un foglietto, mi disse: «To’». Mi dava il suo voto. Per me quel voto valeva più del Premio Strega (che poi vinsi per un solo punto, forse – mi piacque pensare – per il voto che mi aveva dato Parise). Da allora nacque tra me e lui un’amicizia e una reciproca simpatia che durò fino alla sua morte.

Passavamo spesso le sere di quegli anni sessanta nei caffè a chiacchierare. Come mi piaceva la sua cadenza veneta! Era una musichetta ironica nascosta dentro tutto quel che diceva. Lui sapeva raccontare senza scomporsi, e in modo così divertente, e con particolari così inconcepibili, che alla fine il fatto che fosse tutto vero o tutto inventato era solo una questione secondaria e irrilevante. A volte era lui a spingere l’altro a parlare, e quello incalzato dalle domande, sempre più indiscrete e invadenti, cominciava a confidarsi, a dire cose che non avrebbe mai detto a nessuno.

Una sera a via Veneto (era l’epoca a Roma della Dolce Vita!) puntò due “lolite” vestite e truccate in modo piuttosto stravagante, cominciò a fissarsi su quelle due, a studiarle, e costrinse me ed Enzo Bettiza a una specie di inseguimento attraverso bar, discoteche, teatrini off, tutto per riuscire a ricostruire, in modo plausibile, da scrittore, come due ragazze di quel tipo lì passavano la serata. Uno scrittore, diceva, deve sempre documentarsi. La cultura non è aver letto libri, è aver lavorato per capire. Non solo le cose importanti, ma le cose, tutte le cose che ci circondano, con la curiosità innocente che hanno anche i bambini. 

Una sera stavamo chiacchierando del più e del meno a piazza del Popolo, quando all’improvviso Goffredo s’interruppe e accostando la faccia alla mia mi sussurrò all’orecchio: «Voltati senza farti notare. Lo vedi quel signore corpulento e volgare con quella specie di puttana tutta truccata a fianco?» Io mi voltai ed effettivamente alle nostre spalle c’era un tipo così. «Quello è mio padre. Mio padre naturale», aggiunse. Gli domandai perché non lo salutava. Era andato una sola volta a trovarlo, mi disse, una visita molto formale, per domandargli se c’era in famiglia l’eventualità di malattie ereditarie, e poi gli aveva tolto il saluto: «Visto che lui non mi ha riconosciuto quando sono nato, ho deciso anch’io di non riconoscerlo quando lo incontro». 
 
Adesso ci scherzava su col suo umor nero, ma non essere riconosciuto era stato un trauma tremendo per lui, in una piccola città, dove tutti amano spettegolare di queste cose. Era o non era suo padre quella sera? A Goffredo piaceva fare il misterioso. E anche se le sue storie avevano sempre un fondo di verità, non si sapeva mai fino a che punto bisognava crederci. Così quando parlava di sua moglie, di come l’amava e come erano difficili i loro rapporti (questo ai primi tempi), diceva tutto contento, come se raccontasse le prodezze di un ragazzino: «Hai visto come zoppico? Mi ha colpito il ginocchio col suo tacco a spillo. Sono affilati come pugnali, litigare con lei è pericoloso, fa una mossa, tac, e sei azzoppato!». E tirava su il pantalone fino a scoprire il ginocchio che era effettivamente fasciato. Poi, chissà se veramente aveva litigato con sua moglie, ma l’immagine di questa moglie bambina che usava i tacchi a spillo con mosse da karatè, era graziosa ed esilarante.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA