Le cure domestiche è un romanzo molto potente che prende il la quando Ruth e sua sorella Lucille vengono affidate alle cure della loro eccentrica e ruvida zia, Sylvie, dopo il suicidio della madre. Nella cittadina di Fingerbone, nel Midwest, inizierà la loro nuova vita, una lunga strada che farà maturare ciascuno dei singoli personaggi coinvolti in questa tragedia familiare. Con Le cure domestiche Marilynne Robinson ha vinto il PEN/Hemingway Award preparando i lettori per l’arrivo della sua trilogia dal forte carattere spirituale, venticinque anni dopo.
In Italia è appena uscito “Le cure domestiche”, come sono nati i personaggi di Ruth e Sylvie?
«Quando scrivo fiction, tutto è determinato dalla voce. “Ruth”, il suono stesso di questa parola, per me significa pietà, compassione. E proprio grazie alla sua indole, Ruth può affrontare esperienze che altrimenti sarebbero dure e allarmanti. Ruth non nega la durezza della sua vita, anzi, vi trova celata una strana bellezza. E da questo sentimento disarmante germoglia il personaggio di Sylvie».
Nei suoi libri ripone grande cura nel linguaggio. “Le cure domestiche” sembra un poema in prosa.
«Mi ha sempre incuriosito scoprire le potenzialità del linguaggio, come possa essere così preciso e al contempo, ricco di suggestione. In realtà io avrei voluto essere una poetessa».
In Gilead, il suo protagonista è un pastore, John Ames. Lei si considera una scrittrice religiosa?
«La religione è un aspetto centrale per il mio pensiero. La studio con maggior piacere rispetto ad ogni altra cosa. Leggo il mondo nei suoi termini. Quindi è sempre un soggetto naturale per me. E non ho altro interesse che continuare ad esplorarla, ad approfondirla. In tal senso la mia scrittura serve sempre i miei interessi, nel linguaggio, nella storia e nella fede».
Eppure la fede è spesso messa in discussione.
«Ha ragione, la fede viene vista come qualcosa difficile da raggiungere e che può essere facilmente smarrita. Ma questa non è la mia esperienza. La nostra società vede la religione sotto l’assedio perenne della ragione, destinata a soccombere. Ma per fortuna la scienza è progredita al punto che l’idea stessa di poter far luce su tutti i misteri dell’universo, eliminando ogni traccia di mistero e rinunciando ad ogni alterità possibile, è stata accantonata».
Ovvero?
«Una visione razionale in senso assoluto costringerebbe le persone a sopprimere o negare una naturale consapevolezza intuitiva e intimista, rinunciando al legame con la religione».
Urne chiuse e risultati noti: ha vinto Donald Trump. Che ricordo conserva del presidente Barack Obama?
«Ho incontrato il presidente Obama in due occasioni: durante una cena alla Casa Bianca e in occasione della nostra intervista. Lui è un uomo brillante, gentile e cortese, molto piacevole. Spesso le persone mi hanno domandato su cos’abbia significato essere intervistata da lui...».
Ebbene?
«Non ho avvertito alcuna pressione. Abbiamo avuto una bella chiacchierata, come fra amici di lunga data. È il più grande onore della mia vita il fatto che il presidente Barack Obama mi abbia voluto incontrare alla Casa Bianca per una chiacchierata intima».
Ma cosa rappresenta la letteratura per lei?
«La letteratura è una componente essenziale della mia vita. Vivere senza libri sarebbe impossibile, mi creda. Pochi giorni fa ho trascorso diverse ore a parlare con un gruppo di detenuti in un carcere nello Stato di Washington, ed è stato meraviglioso. A prescindere dalle lingue e le culture nazionali, la civiltà ci permette di rifugiarci e trarre forze dai libri, attorno ad essi. Questo è un vero miracolo».
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