Con “Cafè Society” Woody Allen torna grande negli anni ‘30

Con “Cafè Society” Woody Allen torna grande negli anni ‘30
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 29 Settembre 2016, 01:01 - Ultimo aggiornamento: 6 Ottobre, 16:41
E ora non dite che Woody Allen fa sempre lo stesso film. Prima o poi ci siamo cascati tutti ed è vero che se sforni un titolo l’anno non sempre sono capolavori. Però con Café Society il grande newyorkese torna davvero alla sua forma migliore, quella di grandi film “al passato” come Radio Days, Zelig o La rosa purpurea del Cairo. E rimescolando il solito mazzo di carte infallibili comunica un senso di rimpianto per un’epoca irripetibile che non sfocia nell’elegia solo perché è e resta una commedia.

C’è il jazz, c’è l’America anni 30, c’è una famiglia ebrea soffocante e insieme adorabile (Woody ormai guarda alle cose della vita con la serena indulgenza dei suoi 80 anni), ci sono le trappole del destino e i dilemmi della morale. Insomma il meglio dell’Allen di oggi e di ieri, in un film ambientato 80 anni fa ma più vicino di tanti lavori al presente. 
Jesse Eisenberg, sempre più sorprendente, è lo sprovveduto Bobby, piccolo ebreo newyorkese che lascia il Bronx per tentare la sorte a Hollywood da suo zio Phil (Steve Carell), potente agente cinematografico. Basterebbe la scena in cui l’ignaro Phil riceve la telefonata della sorella, durante un party a Beverly Hills, a dire la bellezza di questo film tutto sottotraccia, che lascia intendere sempre più di quanto spieghi. Il tono infatti è brillante. Le conseguenze saranno drammatiche, anche se pochi lo sapranno.

Dettaglio chiave: nulla di ciò che accade è di per sé comico, è lo sguardo di Woody, cioè il nostro, a cogliere l’ironia involontaria e a volte tragica delle situazioni. Perché «la vita è una commedia scritta da un sadico», come dice Bobby, e il massimo sadismo è non darle nemmeno un vero finale lasciando ognuno nel suo brodo. È il lato “filosofico” dell’ultimo Allen, esplicito in film come Irrational Man, e sapientemente fuso con l’intreccio in affreschi più ampi come questo. Anche se qui la vicenda centrale si sfrangia in una serie di sottotrame solo apparentemente secondarie.

Mentre Bobby a Hollywood costruisce la sua felicità (e poi la sua infelicità) con un’adorabile segretaria di nome Veronica (Kristen Stewart, brava anche se assai poco anni 30) e poi con una seconda Veronica (Blake Lively), a casa tutto procede come sempre. Sua madre continua a insultare suo padre («tu non sei ebreo, non preghi, non digiuni, non hai nemmeno la faccia da ebreo!»), sua sorella se la vede con un marito intellettuale e così buono che finirà per inguaiare gli altri, suo fratello fa sempre il gangster anche se a casa tutti credono che gestisca un night... 
Così, tra battute d’epoca («Può andare a letto con chi vuole, non avrà mai la parte. Le sue cosce non sono cosce Mgm»), tramonti a Central Park (le luci struggenti sono firmate Storaro) e omaggi a Barbara Stanwyck, la star più moderna dell’epoca, Cafe Society corre verso un epilogo di gusto molto contemporaneo che lascia tutti sospesi sull’orlo dell’abisso, personale e globale (gli anni 30 volgono al termine, la guerra è alle porte). Suprema ironia, questo film sulle Majors di una volta è prodotto da Amazon e dominato da un attore lanciato dal ruolo di Mark Zuckerberg. Ogni film in costume parla del presente. 
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