Björn Larsson: «Scrivere è come navigare a vista»

Björn Larsson: «Scrivere è come navigare a vista»
di Renato Minore
5 Minuti di Lettura
Giovedì 9 Marzo 2017, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 18:16
Dice Björn Larsson: «Il mestiere dello scrittore, fatto sul serio, cioè cercare di scrivere libri che durino e che lascino un’impronta nei lettori è molto più duro di quello del marinaio. Quando navigo, per esempio, e arrivo in un porto in Scozia dopo la traversata del Mare del Nord so di avere fatto le cose che dovevo fare. Nella letteratura, come nell’arte in generale, non c’è mai la certezza che il lavoro sia finito e ben fatto». A bordo della sua barca a vela Rustica, su cui spesso vive, il sessantaquattrenne narratore svedese ha scritto La vera storia del pirata Long John Silver in cui il protagonista è il terribile pirata di Stevenson, una figura sfaccettata, spregiudicata, anarchica, ma anche amante della vita. Lui l’ha immaginato intento a ricostruire le sue memorie e il romanzo ha rappresentato un punto di svolta nella sua carriera.

L’incontro poco prima che parta la sua kermesse letteraria a Pordenone, una settimana tra narrativa, cinema teatro in cui da diversi punti di vista cercherà di spiegare se (o perché) dopo anni di viaggi e traversate considera la scrittura la sua più grande avventura. E mi dice subito a proposito del cruciale rapporto tra avventura e letteratura: «La scrittura è certamente una grande avventura, almeno per chi, come me, cerca sempre di raccontare storie, personaggi e temi diversi, di lanciarmi la sfida di immaginare e scoprire altre vite, altri mondi e altre culture, di mettermi nei panni di persone che non sono come me, che non appartengono alla mia cultura o paese».

Una navigazione a vista in entrambi i casi?
«Non c’è una ricetta per fare un buon libro, ancora meno un gran libro e, dunque, nessun certezza, come nell’avventura vera. Da lì a dire che la letteratura è la mia “più grande” avventura, ce ne passa! C’è anche, per esempio, l’amore…»

La vita di Long John Silver è all’insegna dell’avventura e della libertà assoluta. E libertà e avventura segnano anche la sua biografia. Cosa vi unisce?
«La libertà di Long John Silver, nel romanzo, non è la mia… per fortuna. La sua è egocentrica, senza compassione per gli altri, tranne a volte, un po’ per caso, per salvarsi la pelle. Però forse, con il mio bisogno di libertà, anche se meno assoluto, ho avuto più facilità a mettermi nei sui panni, a immaginare come sarebbe vivere una vita troppo libera, senza altre passioni o valori, e il prezzo da pagare per questo».

Lei è contro l’omologazione tra racconto veridico e letteratura di immaginazione. Il racconto documentario e la testimonianza di vita non devono essere considerati letteratura, come vorrebbe Saviano?
«Su questo punto sono d’accordo con Levi che ha sempre sostenuto che Se questo è un uomo, non deve essere considerato letteratura, ma deve essere giudicato per la sua verità, e soltanto per questa. Non basta avere uno stile, una voce, una “scrittura” per fare letteratura, bisogna anche immaginare e creare possibilità di vita, di pensieri, di emozioni, di mondi e di parole che non esistono nel mondo reale, ma che potrebbero esistere. A che cosa servirebbe ”la letteratura” se deve avere lo stesso scopo dei discorsi finalizzati alla verità come il giornalismo, la filosofia o i saggi in generale? Per questo ragione sono scettico verso la cosiddetta auto-finzione e verso i romanzi ”basati su una storia vera”… non come genere ovviamente ma come ”letteratura”. Il problema etico, che c’è, riguarda comunque coloro che pretendono di raccontare la verità, lì non ci si può nascondere dietro l’etichetta della forma romanzo per non assumersi la responsabilità delle proprie affermazioni».

Sta scrivendo da tempo un nuovo romanzo sulle migrazioni. Ma sembra che sia un progetto difficile da realizzare. Perché?
«Senza dubbio, perché sono partito male. Mi sembrava che il tema mi fosse calzante: c’è il mare, il viaggio, le frontiere, l’identità, l’avventura - anche se non scelta come tale. Però un buon romanzo non deve essere un ritratto sociologico, deve piuttosto raccontare la vita di qualche personaggio alle prese con una certa realtà. Ma chi? Il rischio, quando uno vuole scrivere di qualcosa ambientato nell’attualità, è che diventi superficiale ed effimero. Lo scrittore deve scavare più a fondo e trovare temi che traversino i tempi stretti dell’attualità e della cronaca».

La Svezia è stata considerata a lungo un modello d’accoglienza. Ora non lo è più? È cambiata la sua anima collettiva?
«Non più di tanto. Bisogna ricordare che in un anno abbiamo accolto 160.000 profughi, in proporzione più di ogni altro paese in Europa. Riconosco che era necessario ridurre temporaneamente il flusso di immigrati per sistemare quelli che erano già arrivati. Comunque la Svezia non ha chiuso le frontiere ma vuole identificare e fare entrare le persone che hanno il diritto di chiedere asilo. Detto questo, è vero che anche noi abbiamo adesso il nostro partito populista e xenofobo, che non vuole il bene di tutti ma soltanto di alcuni, scelti da loro». 

Il fatto di sapere l’italiano le ha cambiato la vita? 
«Direi, per precisione, che mi ha arricchito la vita non l’ha radicalmente cambiata. Però, grazie al fatto che ho imparato l’italiano, ho potuto scoprire un paese, una cultura - il cibo anzitutto - e grandi scrittori, avere amici, dialogare con i miei lettori, addirittura amare. Non è poco. Senza l’italiano, sarei rimasto un osservatore esterno, un turista che passa senza capire granché e che ritorna nel suo paese uguale a come era prima».

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA