Il rettore Calcagnini: «Imprese troppo piccole e così si diventa fabbrica»

Il rettore Calcagnini: «Imprese troppo piccole e così si diventa fabbrica»
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Lunedì 25 Marzo 2024, 01:15 - Ultimo aggiornamento: 14:36

Il lato B della terra del fare, e bene. Procede di sintesi Giorgio Calcagnini: «Qui accade che si produce, ma le decisioni vengono prese altrove». Il rettore dell’Università di Urbino offre la formula della resistenza, attiva. «Bisogna diventare forti, crescere, per poter dire di no». 

Negli ultimi vent’anni, sono state 38 le aziende marchigiane convertite in proprietà estere; in altri 10 casi hanno perso le quote di maggioranza.
«Significa che vantiamo eccellenze produttive. La prima osservazione da fare è che abbiamo la capacità di attrarre imprese, nazionali o internazionali, più grandi. Questo è l’aspetto positivo».

Altrimenti non desterebbero alcun interesse.

«L’altro volto della stessa medaglia: realtà piccole, come quelle che popolano il nostro territorio, sono più facilmente scalabili».

 
 

Può enunciare il teorema?
«La dimensione è un limite. È il mercato a decretarlo».

La contromossa?
«Una possibile soluzione è fare rete, creare un sistema. Coordinarsi».

Può costituire una forma di opposizione?
«Può far dire di no. Comunque bisogna capire, analizzare ogni singolo caso. Nell’eventualità che il passaggio generazionale non sia garantito, la vendita può apparire come l’unica conclusione possibile».

Irresistibile fashion. Louis Vuitton a Civitanova, Fendi a Fermo, Hugo Boss a Morrovalle, dove la casa di moda tedesca crea calzature. La storia si ripete: assorbire la manodopera di un micro fornitore di zona e fare strategie lontano da qui.
«Diventare la fabbrica del mondo è un corollario della tesi dimensionale. Accade quando le aziende locali hanno un know how importante, ma non hanno proporzioni tali per compiere lo scatto per fare impresa».

Ricapitoli.
«Qui si produce, ma le scelte vengono fatte altrove. Un parallelismo può essere utile per comprenderne i rischi».

Proceda pure di comparazione.
«È lo stesso, identico, schema del sistema finanziario.

Con il fallimento di Banca Marche e l’assorbimento della Popolare di Ancona, e in seguito a una serie di acquisizioni, si è arrivati a far convergere tutto in Intesa Sanpaolo. Più di un economista aveva posto l’accento sui pericoli che avrebbe potuto generare l’allontanamento del centro decisionale dai luoghi dell’erogazione del credito». 

Torniamo a chi arriva da fuori per comprare i gioielli di questa terra. 
«Non sono attenti al rapporto che nel passato c’è sempre stato tra i nostri imprenditori e il territorio, il tessuto sociale. Tuttavia una vendita non si può vietare. Lo ribadisco: si può solo diventare forti per poter dire di no».

Mettiamo che il ragionamento all’incontrario vada. Il caso Ikea: perché quel colosso dell’arredamento è stato fondato in Svezia e non nelle Marche, che vent’anni fa detenevano la leadership nella produzione di mobili?
«È azzardato fare un raffronto con un modello mondiale della distribuzione. Fa produrre in subappalto persino nel Pesarese».

Non è nato gigante, per diventarlo ne ha fatta di strada.
«Da noi non ci sono le dimensioni per compiere un percorso simile. L’impresa deve espandersi per poter aspirare a diventare un player mondiale. Non so se le nostre non sono interessate a farlo, oppure non riescono. Sono tanti i casi».

Così tanti da farsi fenomeno? Quanto pesa il modello organizzativo?
«È all’origine di tutto. Il vecchio capitano d’industria difficilmente cede il comando a un manager, il che è frutto di un passaggio generazionale mancato, perché un giovane avrebbe una maggiore propensione a farlo. Sono due aspetti strettamente connessi. C'è un altro elemento che condiziona».

Quale? 
«I nostri imprenditori, e non solo quelli marchigiani, sono molto individualisti, il che rende difficile creare quel fronte comune che potrebbe essere un antidoto all'effetto terra di conquista».

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