Le grandi tragedie L'orgoglio spezzato
dei colossi del mare

Il Titanic
di Paolo di Paolo
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Venerdì 6 Dicembre 2013, 14:02 - Ultimo aggiornamento: 13 Dicembre, 15:00

Non c’ mito o leggenda che riguardi il mare e non porti con s il terrore del naufragio. Un gran numero di storie antiche – nella Bibbia così come nelle vicende degli eroi omerici – è segnato dalla paura che il veliero, la barca, la nave non arrivino a toccare terra. E di storie di naufraghi sono fitte la letteratura e l’arte moderna: da Robinson Crusoe, sopravvissuto su un’isola deserta, ai passeggeri della Zattera della Medusa al largo delle coste africane dipinta da Géricault nel 1819.

Ma quando la leggenda del naufragio diventa cronaca e si avvicina a noi, sentiamo che il pericolo ci riguarda. Si fissa nell’immaginario e viene rielaborato di continuo, come per esorcizzarlo: la rotta infelice del Titanic, che dal Regno Unito muoveva verso New York, è stata oggetto costante di romanzi e di film, fino a quello pluripremiato di James Cameron con Leonardo Di Caprio del 1997.

C’era un sogno di grandezza da Belle Époque sull’orlo della Grande Guerra, nella costruzione del super-transatlantico di 46.328 tonnellate. L’impresa di edificare questo gigante dei mari era cominciata in Irlanda nel 1909, caricandosi fino al momento del varo di dettagli incredibili: la più grande ancora mai costruita, per esempio; i circa duemila passeggeri e – cifre stupefacenti – le 73.000 libbre di carne fresca imbarcate, con 11.000 libbre di pesce fresco, 5.000 libbre di burro, 2.500 libbre di salsicce, 10.000 libbre di zucchero, 40.000 uova, 40 tonnellate di patate. Una grande nave da crociera è sempre un microcosmo galleggiante, che ripete – della vita sulla terraferma – ogni aspetto: all’epoca del Titanic, anche le insormontabili differenze di classe, che spartivano i passeggeri fra il lusso e la miseria. Domenica 14 aprile 1912 il Titanic si scontra a tarda sera con un enorme iceberg, la fiancata destra viene squarciata e comincia a inghiottire acqua. La conta delle vittime arriva a 1518, ma poco più di trecento corpi vengono recuperati.

A neanche sessant’anni fa risale lo scontro, al largo delle coste americane, del transatlantico italiano Andrea Doria con la nave svedese Stockholm. Nel titolo a tutta pagina del Messaggero del 27 luglio 1956 c’è già tutto l’aspetto simbolico dell’evento: «Una delle più belle e moderne unità della nostra marina». D’altra parte, la costruzione dell’Andrea Doria era stata una delle grandi sfide del secondo dopoguerra: la più grande – con i suoi 213 metri di lunghezza – e la più veloce nave passeggeri dell’epoca.

Fu la nebbia a causare l’incidente? Ancora oggi il dubbio rimane. Una delle storie più toccanti legate al naufragio è quella di uno speaker radiofonico di un’emittente newyorchese, che dà conto della tragedia senza sapere che a bordo ci sono le due figlie. Una soltanto riuscirà a salvarsi. L’altra è nel novero delle 46 vittime. In una scena di Fronte del porto, il film di Elia Kazan del 1954, si vede passare l’Andrea Doria – ridotta giusto un paio di anni dopo a un relitto mai recuperato dal fondo dell’Oceano.

Cronaca ancora aperta dei nostri giorni è la tragedia d’inizio 2012 al largo dell’isola del Giglio: la nave Costa Concordia piegata su un fianco per una manovra azzardata, troppo prossima a uno scoglio. Trentadue le vittime di un tragedia assurda perché evitabile. E soprattutto, perché quella città galleggiante fatta di 1500 cabine, campi sportivi, piscine, ristoranti, teatri, cinema, aveva per effettiva destinazione il divertimento. Una crociera nel Mediterraneo che coincideva con il sogno e la spensieratezza di migliaia di passeggeri, un sogno semplice, a portata di mano, infranto – come scrisse Vincenzo Cerami sulla prima pagina del Messaggero all’indomani della tragedia – in un mare «docile e calmo». Agitato dall’imperizia umana, reso mortale da un inutile azzardo. Il relitto squarciato, appena tornato in asse, della nave passeggeri di maggior tonnellaggio mai naufragata, resta lì, al largo del Giglio: terribile e ingombrante come un monito.