Franchi tiratori e veleni: se il favorito resta al palo

Franchi tiratori e veleni: se il favorito resta al palo
di Nino Bertoloni Meli
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Venerdì 16 Gennaio 2015, 19:37 - Ultimo aggiornamento: 19 Gennaio, 13:00

Il presidente Sandro Pertini legge, deglutisce, esita, quindi proclama: «Nulla». E passa la scheda ad Amintore Fanfani che funge da scrutatore, e come tale deve leggere quel che c’è scritto e che lo riguarda in prima persona: «Nano maledetto, non sarai mai eletto». E’ l’episodio forse più clamoroso delle bocciature di tanti candidati alle elezioni presidenziali, di quelli, e sono la più parte, che sono entrati papi e ne sono usciti cardinali.

Solo Francesco Cossiga fu eletto al Colle senza morti e feriti sul campo, solo il futuro Picconatore passò al primo scrutinio senza lasciare con l’amaro in bocca altri pretendenti. E’ vero, anche Carlo Azeglio Ciampi fu eletto subito, ma con l’amaro in bocca, quella volta, qualcuno ci restò, si chiamava Franco Marini, e la cosa si sarebbe pure ripetuta. La scelta di Cossiga fu il capolavoro politico di Ciriaco De Mita allora segretario della Democrazia cristiana, che si accorda con il segretario del Pci Alessandro Natta da poco succeduto a Berlinguer. «Su Andreotti o Forlani io non sono in grado di andare», mise le mani avanti Natta. E De Mita, che per Cossiga non è che stravedesse, si convinse a giocare la partita dell’ex ministro dell’Interno del caso Moro, cugino di Berlinguer. Un vero patto politico, stretto a gennaio e tenuto segreto fino alla primavera successiva, come ha rivelato recentemente Luigi Zanda, che di Cossiga fu stretto collaboratore.

I VETI

Un’altra regola non scritta ma molto operante è che al Colle non è mai salito un segretario di partito (a parte Saragat), né uomini troppo in vista nel Palazzo. «Dopo il fascismo, il sistema politico diffidava di chiunque potesse concentrare su di sé troppo potere», la spiegazione di quasi tutti i leader e di tanti analisti. Maldicenze, complotti, sesso e franchi tiratori, questi ultimi i veri protagonisti di tante votazioni, gli strumenti più usati.

Si racconta che finanche il mite Aldo Moro convocò a palazzo Chigi Carlo Donat Cattin per intimargli: «Leone non deve passare». «E come si fa?», chiese l’interlocutore. E Moro: «Ci sono vari strumenti tecnici». E ai colonnelli che gli chiedevano lumi su questi «mezzi tecnici», il vulcanico capo di Forze Nuove spiegò: «Il pugnale, il veleno e i franchi tiratori». E per Leone le porte del Quirinale restarono chiuse, salvo prendersi per il momento la magra consolazione della sospensione dalla Dc di De Mita e Donat Cattin «per rilevante indisciplina politica», e sette anni dopo la soddisfazione più grande, una vera rivincita, riuscendo a varcare i dorati portoni del Quirinale.

RECORDMAN

Recordman di mancate ascese tentate al Colle è sicuramente Fanfani, il «Rieccolo» affibbiatogli da Montanelli. Nel ’71 sembra in pole per la successione a Saragat, ma nella Dc in molti lo temono, e fuori la Dc è in atto una campagna della sinistra e dell’estrema sinistra a suon di «fanfascismo» che lo dipinge come un aspirante De Gaulle. Arriva fino a quota meno 16, ma non ce la fa, è costretto a desistere.

Per bloccare Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato che De Gasperi voleva riproporre, si ricorse al pettegolezzo a sfondo sessuale. De Nicola è napoletano, è single, ha una relazione con una nobildonna partenopea, ma siamo nel 1948 e i due per incontrarsi vanno in Svizzera, la cosa viene sparsa a piene mani nel Palazzo e d’incanto la candidatura di De Nicola sparisce.

Pettegolezzi similari sette anni dopo impallinano Cesare Merzagora, candidato indipendente della Dc, che da presidente del Senato si cambia d’abito tra la seduta del mattino e quella del pomeriggio, non disdegnando di esibirsi in tight con le code. Per tre votazioni subisce il cecchinaggio, ma alla quarta arriva Giovanni Gronchi e passa agevolmente con i voti anche della sinistra. Su di lui non pesano le dicerie a sfondo sessuale. Anzi. «Sono democristiano, ma dalla cintola in su», dirà di sé Gronchi. Per incontrarsi con una nobildonna alle porte di Roma, il neo presidente si fa prestare l’auto blu di un ministro amico, e appena la cosa si sa quest’ultimo viene subito ribattezzato «ministro dei trasbordi».

I SOCIALISTI

Sette anni dopo salta la candidatura di un segretario importante, quello del Psi, Pietro Nenni. E’ il repubblicano Ugo La Malfa a mettere il veto, e in tanti lo seguono, nonostante il leader socialista abbia rotto con i comunisti e abbia promosso l’esperienza del centro-sinistra. Passerà alla fine Giuseppe Saragat, unico segretario assurto al Colle ma perché capo di un piccolo partito, il Psdi, che non incuteva timori.

I socialisti si prenderanno la rivincita nel 1978, quando in corsa c’è La Malfa, ma Bettino Craxi, fresco di leadership conquistata al Midas, alza disco rosso e non transige. «Il Psi è sempre diviso su tutto, ma sul no a La Malfa c’è l’unanimità», ironizzò Giacomo Mancini. Craxi sente che si può lavorare per portare uno dei suoi al Quirinale. Ma che fatica, per Bettino. Gli mettono in mezzo Antonio Giolitti e Norberto Bobbio, che proprio non stravedono per il leader del Psi, alla fine si plana su Sandro Pertini, un irruento, un irrequieto, socialista storico ma antipatizzante con Craxi ricambiato di pari moneta.

Sicché, quando viene proclamato, tutti in aula in piedi ad applaudire, alla fine si sente Craxi chiosare «vabbè, vuol dire che la prossima volta eleggeremo un socialista». E per non vedere di persona il leader del Psi, Pertini inaugurerà le consultazioni solo con i capigruppo, «sai, non è per disistima, ma il presidente vuole sentire solo i rappresentanti dei gruppi parlamentari», doveva spiegare per telefono un imbarazzato Maccanico ai vari segretari esclusi. Ma è con le votazioni del 1992 che si celebra l’apogeo del conflitto interno a un partito - la Dc - e i franchi tiratori celebrano i loro fasti. E’ lo scontro epico tra Forlani e Andreotti agli albori di Tangentopoli che porterà alla scomparsa della prima Repubblica.

SCONTRO STORICO

Uno scontro a base di «prego, vai avanti tu, ti spetta». Forlani è il segretario della Dc, Andreotti è manco a dirlo a palazzo Chigi, per lui si tratta di coronare una carriera sempiterna. Al mattino il divo Giulio riceve a palazzo Chigi Forlani per l’incontro risolutivo, e il tam tam di Palazzo vuole il presidente del Consiglio candidato al Colle. «Allora intesi, il prescelto sei tu». «Ma nel pomeriggio arrivò la telefonata di Vincenzo Scotti, l’uomo dei tradimenti, e capimmo che le cose erano cambiate», racconterà Paolo Cirino Pomicino, braccio destro andreottiano.

La Dc decide di affidarsi ai gruppi parlamentari, «optammo per la votazione a scrutinio segreto e al 90 per cento uscì designato Forlani», racconta Gerardo Bianco, allora capogruppo alla Camera (il compito di distruggere le schede fu affidato a Sergio Mattarella). Ma in aula sia Forlani che Andreotti subiscono l’onta del tradimento, «meglio lasciar fare lo Spirito santo», il commento del divo Giulio impallinato.

IL CATAFALCO

Dall’alto del suo scranno di presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, si godeva la scena. A lui si deve la decisione di adottare quelle urne segrete per le votazioni subito battezzate «il catafalco». Mentre i due divi dc si impallinavano a vicenda, Craxi tentava il forcing su Giuliano Vassalli ma senza esito. Poi arrivò la strage di Capaci, Falcone e il tritolo, e il Palazzo si dette una scossa. «Ma noi dc la sera prima avevamo già designato Scalfaro», rivela Bianco. E Craxi, anni dopo da Hammamet, confermò: «Venne Forlani da me al Raphael a farmi il nome di Scalfaro, e io fui subito d’accordo, lo avevo avuto come mio ministro dell’Interno e ne avevo stima».

Pure Pannella è della partita, si inventa «il Pertini cattolico». Restavano i dubbi del Pds di Achille Occhetto, che puntava su Giovanni Spadolini. L’ultimo segretario del Pci andò di persona a incontrare Scalfaro la sera prima delle votazioni, «noi ti votiamo, ma nel gruppo c’è qualche riserva per la tua, come dire, forte inclinazione religiosa». «Io seguo la lezione degasperiana, la Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato», assicurò Scalfaro, che non risparmiò invece amare sorprese ai suoi elettori.

IL GOVERNATORE

E si arriva a Ciampi. Fa tutto Walter Veltroni, segretario dei Ds: fa decollare la candidatura attraverso i giornali, convince l’ex governatore di Bankitalia, e soprattutto convince Massimo D’Alema che aveva stretto un patto di ferro, rivelatosi poi di latta, con Marini per quest’ultimo al Colle. Racconta Clemente Mastella che assistè alla riunione decisiva: «Vidi minuto per minuto Marini andare a sbattere. Era riunito l’Ulivo, e D’Alema e Veltroni filavano d’accordo come Bibì e Bibò. A conclusione del vertice, D’Alema fa “allora intesi, Veltroni è incaricato di vagliare i candidati”. Ma come, il candidato è Marini e si fa mediare dal capo dei Ds, pensai subito, e lo dissi a Manconi che mi stava vicino». Ciampi passa, e Marini non si parlerà con D’Alema per un bel po’ di tempo.

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