Francesco Bruno*
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Oltre Cop28/ Come fermare chi ignora le indicazioni sul clima

di Francesco Bruno*
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Giovedì 14 Dicembre 2023, 00:11

La lotta ai cambiamenti climatici è un tema storicamente divisivo in un mondo già alle prese con due guerre dalle conseguenze imprevedibili. Normalmente contrappone i Paesi del G7 (Occidente e Giappone) e le nazioni che negli ultimi 20 anni hanno raggiunto dimensioni economiche paragonabili ad Usa e Ue e che sono attualmente i maggiori inquinatori del pianeta, nonché i Paesi produttori di energia da combustibili fossili. Essa ha assunto in questi ultimi giorni particolare rilevanza mediatica tanto da ritrovarsi improvvisamente al centro della geopolitica mondiale.

Il messaggio che (perlopiù) viene trasmesso dalle dichiarazioni (ufficiose e ufficiali) è quello di una svolta storica, di un accordo unanime per il futuro della salute dei cittadini e del pianeta, di un’accelerazione verso uno sviluppo sostenibile e un riequilibrio delle fonti energetiche a favore delle rinnovabili. Con la visuale del giurista è possibile evidenziare qualche passaggio utile a comprendere la reale portata della posta in gioco e degli interessi sottesi. Partendo da un presupposto socio-economico ineludibile: il riscaldamento globale è un fenomeno che avrà e sta avendo impatti rilevantissimi sulla nostra vita e sulla nostra produzione industriale, che dovrà essere ridotta e delocalizzata in molte aree che non saranno più adatte come territori e climi di riferimento.

Gli organismi internazionali stimano una diminuzione di Pil annuale per i maggiori Paesi industrializzati (tra i quali l’Italia) tra il 5 e il 10 per cento a partire dal 2030. Inoltre, vi sono delle conseguenze a livello territoriale sulle colture e sul paesaggio agrario che ci contraddistingue nel mondo, nonché sulla nostra catena di approvvigionamento energetica, non essendo un Paese fornito di risorse naturali. Ma cosa indica il termine “COP28”? Esso si inserisce in un articolato ed intricato sistema di regole finalizzato alla lotta ai cambiamenti climatici adottato dalla comunità internazionale. Tutto nasce dall’Accordo quadro del 1992 (Accordo di Rio o Unfccc) che - per valutare i passi in avanti fatti dai vari Stati – ha previsto che ogni anno siano organizzati degli incontri formali, chiamati Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (Unccc) o anche Conferenza Onu sul cambiamento climatico (COP) il cui contenuto è divenuto più stringente con l’Accordo di Parigi del 2015.

Pertanto le COP sono delle conferenze annuali sul clima. Ma cosa si decide in queste conferenze e che efficacia hanno gli impegni assunti in tali consessi? La risposta è complessa ma si può così sintetizzare: una volta che gli Stati ratificano gli impegni presi durante le conferenze, per loro divengono formalmente vincolanti, ma non esistono strumenti giuridici a livello internazionale per punire direttamente coloro i quali (Stati o imprese) non li adempiono.

Quindi, si tratta di soft law, ossia di mere linee guida? Stiamo dando loro troppa importanza sotto il profilo legale? No, poiché negli ultimi anni vi è un sempre maggiore intervento delle Corti nazionali che stanno condannando Stati e imprese nel caso in cui non siano ottemperati gli obblighi ecologici disposti in queste conferenze. Il problema è che i tribunali che stanno agendo in questa direzione sono perlopiù quelli dei Paesi occidentali (e Giappone), pertanto si sta creando una asimmetria concorrenziale tra le nostre imprese e quelle dei Paesi in via di sviluppo, che a tali vincoli non sono soggetti per via giudiziale. Si tratta del punto di maggiore criticità, dal quale tuttavia non si può che uscire se non con un’opera diplomatica e di convincimento su tutti gli Stati sovrani da parte del G7. E qui una seconda riflessione di politica del diritto: se si leggono in ordine cronologico i testi emersi dalle varie conferenze del clima, nelle più recenti (e non solo in quest’ultima di Dubai) si nota un lento, graduale ma evidente cambiamento a disfavore delle fonti fossili, anche se non sono mai menzionate esplicitamente. L’obbligo di un approvvigionamento quantomeno diversificato di fonti energetiche sembra oramai, politicamente ma anche giuridicamente, irreversibile.

Probabilmente i Tribunali dei Paesi produttori di petrolio mai condanneranno una raffineria all’interno del confine dello Stato, ma sicuramente le politiche (e le regole) nazionali e i codici etici e di compliance delle imprese occidentali dovranno sempre maggiormente tener in debito conto le esigenze ecologiche delle fonti alternative (tra cui il nucleare, che - seppur gradualmente - sta ritornando centrale e fondamentale), con un contestuale declino (anche se ad una velocità ad oggi indeterminabile) delle fonti fossili. Da ultimo, va evidenziato sicuramente il ruolo cruciale degli Stati Uniti, ma anche della Ue (si ricordi che la politica ambientale è prevalentemente europea e non degli Stati membri). Non possiamo non condividere quanto affermato dalla Presidente della Commissione in riferimento al ruolo anticipatorio e lungimirante del green deal europeo. Speriamo che la direzione sia mantenuta, soprattutto è essenziale che i Paesi del G7 (e l’Italia in primo luogo) non perdano la leadership economica e sociale e quindi possano continuare ad esercitare quel soft power necessario per effettuare una equilibrata transizione energetica che salvaguardi gli interessi del nostro pianeta e di noi che lo abitiamo.

* Ordinario di Diritto Ambientale
Università Campus Bio-medico di Roma

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