Giuseppe Vegas
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Il monopolio delle Big tech e i rischi da evitare

di Giuseppe Vegas
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Domenica 25 Giugno 2023, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 22:14

Nelle nostre società è sempre più diffuso un sentimento di insoddisfazione nei confronti della permanente validità del modello dell’economia di mercato. Infatti, pur avendo fatto godere un diffuso benessere alle società occidentali, questo modello non è stato in grado di fornire una risposta soddisfacente quando si è trovato a fronteggiare fattori esogeni dirompenti. Le conseguenze distruttive della crisi economica del primo decennio del secolo, della pandemia e della guerra in Europa sono state affrontate da quasi tutti i governi con un approccio marcatamente statalista, mediante un massiccio ricorso allo strumento tradizionale dell’intervento pubblico.

A partire dalle formidabili iniezioni di liquidità a favore delle banche e dei Tesori degli Stati grazie alle politiche di acquisto di titoli sul mercato aperto da parte delle banche centrali. Per proseguire poi con le agevolazioni fiscali, in molti casi trasformate in esenzioni, e le erogazioni in denaro attribuite alle categorie maggiormente svantaggiate dagli eventi. Si è trattato di interventi innovativi ed apprezzati da tutti, malgrado il fatto che abbiano portato la Banca Centrale Europea a detenere oltre il 25 per cento del debito italiano, nonostante i ripetuti allarmi lanciati sulla loro pericolosità.

Non sono mancate anche acquisizioni pubbliche di banche ed imprese. Senza troppo preoccuparsi degli effetti sistemici, a cominciare dall’esplosione del debito pubblico, lo Stato è dunque massicciamente ritornato a gestire direttamente l’economia. Abbandonata nel momento di difficoltà la fiducia nel sistema di autoregolazione offerto dal mercato, in molti si sono fatti conquistare dall’illusione che l’intervento pubblico costituisse la scelta migliore anche in tempi meno drammatici.

In molti casi si è ritenuto più produttivo, e magari pagante in termini elettorali, tutelare singole categorie di potenziali elettori, piuttosto che guardare all’interesse generale. Gli esempi possono essere molteplici, ma può bastare fare riferimento a come sono distribuite deduzioni e detrazioni fiscali, e non vale neppure la pena di fare l’esempio del famigerato 110 per cento. In questo quadro, in cui abbiamo assistito al congelamento intellettuale dei valori del mercato, non vi è stato argine all’incertezza, alla timidezza, o meglio all’indifferenza nell’affrontare la questione, tutta attuale, dei nuovi monopoli.

A fronte della potenza economica delle grandi concentrazioni tecnologiche, le cosiddette Big Tech, da Microsoft ad Apple, da Amazon a Google e Meta, gli Stati sono rimasti inattivi. Fortunatamente, negli ultimi tempi si sta muovendo l’Unione Europea, se non altro per tutelare i propri cittadini nei confronti dell’abuso di informazioni privilegiate. Tuttavia anche l’intervento europeo non va al cuore del problema. Forse perché si tratta di irreggimentare l’attività di colossi che hanno un giro di affari superiore a molti Stati sovrani, forse perché risulta difficile per governi e parlamenti duellare con le legioni di avvocati di cui queste imprese dispongono, forse infine perché è ancora più difficile contrastare le nuove abitudini di vita create dai loro prodotti.

Proprio per questi motivi, occorrerebbe guardare al fenomeno con maggiore preoccupazione. Innanzitutto perché l’utilizzo gratuito, ancorché benignamente autorizzato, dei dati personali di ciascuno di noi, consente a questa imprese di avere a disposizione conoscenze circa le nostre preferenze di consumo e di vita, per tacere di quelle politiche, che hanno un non trascurabile valore commerciale. Con un primo effetto, quello di dar luogo ad una sorta di concorrenza sleale a danno delle altre imprese, che devono pagare per ottenere gli stessi dati.

Ma la conseguenza più preoccupante è che stiamo assistendo senza reagire ad un colossale spostamento di ricchezza dagli ordinari consumatori a vantaggio dei monopolisti. Il motivo per cui si realizza un simile fenomeno è facilmente comprensibile. Ciò dipende dal fatto che, per mantenere la propria forza incontrastata, le Big Tech creano una sempre più formidabile barriera di ingresso a chi si affaccia al mercato. E quindi mirano ad essere sempre più grandi e più ricche. Obiettivo facile da conseguire, semplicemente alzando il prezzo dei loro servizi, grazie alla circostanza di avere già raggiunto la posizione di monopolisti di fatto, o creando nuovi fittizi bisogni nel popolo dei consumatori.

E, se i monopolisti sono sempre più ricchi, i normali cittadini saranno sempre più poveri. Se cresce la diseguaglianza aumenta, di conseguenza, il rischio di alimentare conflitti sociali. D’altra parte, il nuovo sistema economico che si va delineando assomiglia ogni giorno di più a quelli tipici dei regimi autoritari, dove chi comanda pensa solo a tutelare i propri accoliti, nulla curandosi dei bisogni generali. In prospettiva, la crescita della disuguaglianza facilmente porta alla crisi del sistema democratico. Si tratta di un rischio che va assolutamente evitato. Il rimedio non è così complicato, malgrado le incertezze della politica. Basterebbe seguire la strada che è stata recentemente intrapresa negli Stati Uniti e, più recentemente, dalla Commissaria europea per la concorrenza MargretheVestager, una strada che l’Autorità Antitrust italiana chiede da due anni di percorrere: obbligare i grandi monopolisti a cedere una serie di attività nel settore. È forse giunto il momento opportuno per tornare allo spirito originario della legislazione antimonopolistica e impedire la formazione e il consolidamento di imprese che detengano posizioni di monopolio. Lo smembramento della Standard Oil di Rockefeller nel 1911 è ancora l’esempio da seguire.

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