Alessandro Campi
Alessandro Campi

Oltre la vendetta/La guerra necessaria per una pace possibile

di Alessandro Campi
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Lunedì 16 Ottobre 2023, 00:31

Come si contrasta il disordine mondiale, divenuto nel frattempo caos e guerra potenziale di tutti contro tutti? Facendo ordine e operando in vista di questo obiettivo.
Il che significa provare a costruire un (nuovo) sistema di regole e sanzioni, di procedure e convenzioni, di rapporti formali e informali, capace di imbrigliare gli attori internazionali ai diversi livelli e di indirizzarne i comportamenti entro limiti razionalmente prevedibili. Esattamente come era l’ordine bipolare ai tempi della Guerra fredda, che una volta imploso non è stato sostituito da nulla di altrettanto strutturato e vincolante. E infatti si è visto quel che è successo dopo.


Naturalmente un tale sistema di relazioni o modello di ordine, come insegna il passato, sarebbe comunque un equilibrio precario e dinamico, visto che l’equilibrio statico e perfetto si addice solo ai cimiteri. Non significherebbe dunque assenza totale di conflitti armati, ma pace relativa, ovvero caos calmo e controllato. Sempre meglio dello stato di guerra endemico, molecolare e diffuso, collettivamente ansiogeno e destabilizzante di ogni certezza, che nessuno riesce più a gestire e nel quale viviamo da più di tre decenni.


Questi ultimi, secondo una celebre profezia, avrebbero dovuto consacrare la progressiva affermazione su scala planetaria della democrazia capitalistica-liberale, secolarizzata e benestante,uscita vincitrice dal confronto epocale col comunismo generatore di miseria e false credenze. Hanno invece visto affermarsi regimi e forme di organizzazione del potere che continuano a presentarsi come alternativi alla democrazia e ai suoi valori. Hanno registrato il risveglio religioso e nazionalistico a livello di grandi masse. Hanno messo a nudo squilibri di ricchezza e di chances di vita tra le varie parti del globo oggettivamente insostenibili.


La formula della fine della Storia, specie se riletta oggi, evidentemente rifletteva solo la stanchezza e/o il desiderio di tranquillità di un mondo occidentale che scomparsa l’Urss, quasi per un tragico paradosso, ha invece dovuto affrontare sfide sempre più difficili e nuovi nemici, senza però avere la volontà politica, la disposizione d’animo e gli strumenti culturali per farlo in modo risolutivo. E’ vero, ha combattuto e parzialmente vinto la battaglia contro il terrorismo islamista, ma solo perché attaccato direttamente, senza aver colto per tempo la genesi storico e senza essere ancora riuscito a prosciugarne il bacino ideologico.


Creare ordine, un nuovo ordine. Ma a chi dovrebbe toccare un simile compito? In tempi di sovranità statali ancora troppo spezzettate e spesso deboli, la responsabilità di pensare una nuova immagine del mondo dovrebbe pesare su quelle che convenzionalmente definiamo “grandi potenze”.
Che sono tali, se questa definizione ha un senso politico, non perché più armate e minacciose delle piccole o medie, ma perché su di esse, proprio in virtù della loro potenza, grava una responsabilità politica, ma anche etica, maggiore: quella di essere fattori di stabilizzazione e pacificazione, nelle rispettive aree d’influenza, non creatori d’anarchia (per inciso, proprio su questo punto la Russia s’è giocata il suo ruolo e la sua credibilità internazionale: una dotazione militare enorme, grandi ambizioni geopolitiche, ma messe al servizio di una campagna di conquista territoriale da stato colonialista ottocentesco).


Nell’arena internazionale dovrebbe avvenire quel che avviene quando per strada s’incontrano due cani al guinzaglio di taglia troppo difforme: quello piccolo abbaia e vorrebbe mordere, quello grande osserva e resta calmo.

Bene, Stati Uniti, Cina, l’Europa e i suoi stati più rappresentativi, l’India, allargando il club a Turchia, Brasile, Indonesia, Giappone e pochi altri vista la gerarchia attuale della potenza nel mondo, dovrebbero essere i cani grossi che evitano di gettarsi nella zuffa se non perché costretti dagli eventi e sempre con l’obiettivo di riportare calma e ordine, va da sé relative, sulla scena internazionale. Esattamente quel che è accaduto con l’intervento a sostegno dell’Ucraina.


Per farlo al meglio e con costrutto servirebbe però che la forza fosse guidata da un disegno politico e da una leadership capace di visione strategica e cosciente del proprio ruolo. Esattamente quel che latita nell’attuale frangente storico e che, per esempio, impedisce alla guerra russo-ucraina di trovare una soluzione. E’ un problema, questa asimmetria tra ragione delle armi e ragione politica, ma non c’è altra strada, bisogna ricomporla al più presto.
In questo quadro, per venire alla tragica attualità, si inserisce il discorso su Israele: piccolo Stato ma con un peso politico-militare e storico-simbolico inversamente proporzionale alla sua grandezza territoriale. Come si comporterà rispetto all’attacco immane che ha subito, una sfida esistenziale prima che una sanguinosa provocazione militare? Reagire d’impulso con l’idea di vendicarsi sotto la spinta della rabbia e di un capo di governo, l’ormai delegittimato Nethanyau, che potrebbe essere tentato di compensare con una guerra a oltranza e totale la sua debolezza politica e le sue responsabilità?


In realtà, la vendetta - anche se sostenuta da motivazioni teologico-religiose all’apparenza molto forti - è una dimensione primitiva e al massimo privata, non si addice al governo di una comunità organizzata e alla conduzione di un conflitto armato. Le guerre della (post)modernità non si vincono, come in fondo era anche per quelle del passato, solo usando la massima forza senza limiti umani, morali o giuridici, ma facendosi guidare dall’intelligenza politica, da una prudenza e uno spirito di calcolo che non escludono la risolutezza. L’obiettivo politico imprescindibile di Israele, condiviso da quella parte della comunità internazionale che ha la libertà come faro, è disarticolare una volta per sempre Hamas e la sua rete di complici-sostenitori. Tanto più che è ormai acclarato che quest’organizzazione non lotta per la causa nazionale palestinese, ma al servizio di un disegno geopolitico di marca jihadista, eversivo e espansionista, per il quale l’indipendenza della Palestina è solo un pretesto propagandistico.
Fare la guerra necessaria pensando alla pace possibile. Combattere il disordine e chi lo fomenta pensando a come costruire una convivenza internazionale più ordinata e giusta. Mantenere la violenza entro limiti che la rendano riconoscibile dalla barbarie. Così si comporta una potenza consapevole di sé, per il bene proprio e del mondo di cui si fa parte.

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