Paolo Pombeni
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Lo sbarco su TikTok/Il mondo dei social utilizzato al contrario

di Paolo Pombeni
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Lunedì 5 Settembre 2022, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 23:02

Sbarcano su TikTok. Chi? I leader politici in campagna elettorale, e sembra una trovata che interpreta i tempi nuovi. Ma è davvero così? Se ci si pensa c’è da dubitarne.


La prima cosa che è stata notata è che non hanno capito in che contesto andavano a mettersi. Questioni di linguaggio, di postura, di ambientazione, tutti aspetti che gli esperti del settore hanno subito sottolineato. Verrebbe da chiedersi se i leader non si siano affidati a loro prima di lanciarsi in questa avventura, considerato il numero non piccolo di spin doctor ed esperti in comunicazione che è di casa nei quartieri alti dei partiti politici. 
Probabilmente l’ansia di allargare la propria audience andando a pescare in quella fascia di elettori giovani che secondo i sondaggi si tengono lontani dalle urne ha prevalso su tutto (e per una quota non piccola si tratta di elettori che per la prima volta si esprimeranno anche per il Senato).


Il tempo per organizzarsi era poco e poi i politici si percepiscono ormai, anche se si arrabbiano quando glielo fai notare, come uomini di spettacolo e pensano che la vita del politico debba essere anche talk show. Del resto è a quelli che dedicano la maggior parte delle loro attenzioni ed è un palcoscenico su cui raccolgono o credono di raccogliere un buon successo.
In realtà per i media digitali non è così, sia in generale parlando dei mitizzati “social”, sia nello specifico parlando di quello che va per la maggiore fra adolescenti e giovani, cioè TikTok. 

Banalmente tutti sanno che l’adulto, specie se maturo quando non agée, se si mette a fare il giovane rischia di apparire ridicolo. La ragione è che è fuori contesto per esperienza e tempo di vita dal mondo in cui vorrebbe intrufolarsi. Non fa parte della “tribù”.


Per i politici la faccenda è anche più imbarazzante. Loro non vogliono ammetterlo, ma per essi il problema è la credibilità. Magari a volte anche a torto, ma il politico non è percepito come un soggetto credibile e affidabile. Sarà un preconcetto, però l’immagine diffusa è che sia un venditore di slogan e promesse a cui non si sente vincolato e che non è in grado poi di realizzare. Questo pregiudizio è diffuso fra i giovani (e non solo) ed in questa campagna elettorale è confermato dall’incapacità dei politici di uscire dalle “maschere” che si sono cuciti addosso a favore dei vari palcoscenici di routine in cui devono esibirsi e per la fidelizzazione di quegli spettatori/elettori che sono affezionati a quel genere di spettacolo.


È con questo carico sulle spalle che i leader dei partiti si presentano sui social e su uno molto “di settore” come TikTok. Non hanno da proporre che slogan, in parte già noti ai ragazzi, in parte poco credibili. Quelli conosciuti riguardano la questione ambientale (la cavalcano tutti), i problemi vari della globalizzazione a cominciare dall’impatto con le grandi migrazioni (i giovani ci vivono in mezzo), la temuta fine dell’età dell’abbondanza, molto percepibile nella difficoltà di crearsi col lavoro una fonte di reddito per non parlare di un accesso agli ascensori sociali.


Paradossalmente oggi se ci sono degli scettici per default sono proprio i giovani che sperimentano queste realtà. Figurati quanto possono credere alle soluzioni da bacchetta magica, siano di destra (fermeremo il mondo e vi riporteremo ai tempi felici in cui sono cresciuti i vostri padri e nonni) o di sinistra (si può cambiare tutto, non ci sono limiti alle possibilità di capovolgere quel che non funziona, basta deciderlo politicamente).


Il problema è che i politici non sono abituati ad ascoltare, sono maestri nell’annunciare le loro verità, nel giudicare e predicare a prescindere.

Non funziona, se ne è accorta anche la Chiesa (vedi l’intervista all’Osservatore Romano del cardinale Zuppi, presidente della Cei, che proprio su questo punto ha acceso un faro). Si è pensato che per convincere non c’era tempo, bisognava puntare sulla capacità di suscitare reazioni di pancia: o di qua o di là, e al diavolo la conquista del costituzionalismo moderno per cui la politica è dialettica che si fonda sulla convinzione che ci si può reciprocamente ibridare, se non proprio convincere. Anche quelli che non vogliono il presidenzialismo si battono poi per una politica della sfida in cui uno solo sopravviverà e si prenderà tutto, mentre chi perde e va all’opposizione potrà solo lavorare a delegittimare il vincitore nella speranza di sostituirlo alla prima occasione utile ed essere lui quello che si prenderà tutto.


Invece i gruppi dirigenti dei partiti e i loro leader sembra che abbiamo interpretato al contrario il mondo dei social: dovrebbero approfittare di TikTok non per fare i loro annunci, ma per ascoltare i giovani e il loro mondo, per capire una generazione che passo dopo passo diventerà centrale e che potrebbe anche essere presa dalla voglia di contestare un mondo pieno di difficoltà e con una scarsa attenzione nei suoi confronti. 
È necessario che la politica trovi un contatto profondo con questo mondo che è frutto di circostanze storiche così diverse da quelle in cui si sono formati i partiti, tanto i più tradizionali, quanto i più recenti che si vantano di aver messo in discussione quel passato. È un quadro diverso per linguaggio, sensibilità, aspettative quello che si può vedere attraverso TikTok e piattaforme simili. Prima di correre a “parlargli” è tempo di imparare i loro percorsi di apprendimento se si vuole poi conquistarli e farli rientrare da attori e non da spettatori nel circuito politico.
I politici devono convincersi che non è obsoleta l’idea di dare rappresentanza e voce nel Paese ad una pluralità di dinamiche in cui tutti lavorano a capire i problemi, dove le soluzioni nascono da un confronto in cui si trovano convergenze, dove il parlamento serve alla costruzione continua di un equilibrio mai acquisito come immobilismo. E qui vanno inseriti i giovani.


L’illusione che domina è invece che proprio i social spingano a queste semplificazioni, per cui tutto deve ridursi a proclamazione di una sola verità: indiscutibile, perché lo dico io. È così almeno in parte, ma quell’io non è il leader, o il partito, soggetto collettivo, è l’io di ogni persona che ha accesso alla tastiera e al video del suo terminale. Certamente non disdegna di vederci riflessi suoi giudizi o pregiudizi, ma non è disposta più di tanto ad affidarli alla gestione di un soggetto che si collochi sopra il proprio io.


Questo rende assai difficile proporre una politica che faccia perno sul ragionamento, sul senso della realtà, sulla gradualità nell’arrivare alla soluzione dei problemi. Bisogna trovare il linguaggio per portare gli elettori a muoversi in questo contesto. Vale ancora di più per i giovani che non hanno bisogno di vedere che ci si unisce spensieratamente al loro mondo di aspettative, ma che si lavora per farlo diventare possibile. 
Verrebbe da dire che se giustamente a 18 anni li consideriamo maturi per eleggere anche il “Senato”, non possiamo poi trattarli come i famosi eterni bamboccioni. Del resto loro non hanno alcuna intenzione di consentirlo.

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