Alessandro Campi
Alessandro Campi

Coordinamento flop/ I regionalismi che ledono gli interessi del Paese

di Alessandro Campi
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Venerdì 26 Marzo 2021, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 01:11

Sotto la spinta della crisi pandemica – e dei palesi ritardi nell’affrontare in particolare la campagna di vaccinazione – rischia d’imporsi nel dibattito politico nazionale una falsa e fuorviante alternativa: tra chi dice che tocchi allo Stato riprendersi molti dei poteri e delle funzioni che nel corso degli anni sono stati delegati ai livelli amministrativi locali, a partire dalle Regioni; e chi sostiene che queste ultime, considerate il vero bastione dell’autonomia dei territori e degli interessi dei cittadini che vi vivono, se hanno fatto registrare inadempienze e disfunzioni è proprio per colpa della scarsa capacità di coordinamento e delle eccessive ingerenze politico-burocratiche del potere centrale.

Più Stato o più autonomie? Centralizzare nuovamente, come in fondo aveva provato a fare Renzi col suo progetto (bocciato al referendum) di riforma costituzionale, o accrescere il decentramento e il “potere di governo dal basso”, portando avanti la prospettiva cosiddetta del “regionalismo differenziato”? 

Il fatto stesso che ci si ponga simili dilemmi – come detto, eccessivamente semplificatori – è la conferma di come, grazie all’acceleratore della pandemia, le storture nel funzionamento del nostro apparato pubblico, note in realtà da anni, abbiano finito per assumere un carattere drammatico.

E non più rinviabile dal punto di vista delle soluzioni, politiche e istituzionali, necessarie a rimediarle.

Già nei primi mesi del 2020 era successo che presidenti di Regione e Governo centrale avessero preso ad andare ognuno per la sua strada nella scelta degli strumenti con cui affrontare l’emergenza e dei provvedimenti riguardanti dalla sanità all’ordine pubblico. Il caos nelle responsabilità e nella divisione dei compiti è proseguito per tutto il periodo successivo, a colpi di ordinanze, decreti e ricorsi alla giustizia amministrativa. 

Sino all’insopportabile situazione emersa in questi giorni, quando si è scoperto che nella scelta delle categorie da sottoporre a profilassi le diverse Regioni, nessuna delle quali peraltro ha sinora dato prova di grande efficienza nella distribuzione dei vaccini, hanno seguito criteri non solo difformi ma a dir poco discutibili (al limite dell’immoralità). 

Uno scandalo, la mancata o ridotta tutela nei confronti degli anziani e delle fasce più deboli della popolazione, al quale si sta cercando di porre faticosamente rimedio con la scelta – l’unica ragionevole – consistente nel creare un coordinamento-controllo nazionale, affidato ad esperti di logistica e dunque sottratto all’arbitrio (e talvolta all’incompetenza) del politico o dirigente regionale di turno.

Ma per rimettere in piedi un sistema sanitario nazionale davvero in grado di garantire la tutela della salute pubblica così come prevista dalla Costituzione non bastano misure tanto straordinarie quanto occasionali: occorrerà nei prossimi mesi operare una riforma radicale dell’assetto attuale. Su questo tema da alcuni mesi sta conducendo un’importante battaglia civico-intellettuale Sabino Cassese, convinto con buoni argomenti che – dopo le cattive prove offerte in quest’anno drammatico dai diversi sistemi sanitari regionali a danno dei cittadini – la sanità pubblica debba essere sottratta alla competenza esclusiva delle Regioni e riportata, per motivazioni al tempo stesso di efficienza gestionale e di equità sociale, sotto il controllo-coordinamento dell’autorità centrale. 

Ma questo appunto non vuol dire “più Stato” in ogni ambito della vita collettiva, come alcuni sperano e sostengono. Vuol dire che la crisi in corso, nella misura in cui tutte le crisi servono anche a trovare soluzioni nuove a problemi vecchi o perduranti, dovrebbe essere l’occasione per ripensare secondo una logica più funzionale e moderna l’architettura istituzionale dei rapporti tra governo centrale e autonomie locali.

Ma anche per ripensare in una chiave politicamente nuova sia la cultura del regionalismo, smettendola con l’idea che i cosiddetti “governatori” siano legittimati dal voto popolare a considerarsi un potere alternativo o concorrente rispetto a quella nazionale, sia il ruolo dello Stato, che dovrebbe essere sempre più d’indirizzo strategico che di gestione e intervento diretto (salvo quelle materie che configurano un interesse collettivo su base nazionale, come appunto nel caso del diritto alla salute e a buone cure mediche indipendentemente dal luogo di residenza o nascita).

Insomma, da un lato, uno Stato più snello ed efficiente, laddove esso è spesso burocratico, invasivo e incapace di elaborare una visione d’insieme dello sviluppo sociale ed economico; dall’altro un sistema delle autonomie, a partire dalle Regioni, le cui competenze, diversamente da quello che oggi spesso accade, devono sempre esercitarsi in un contesto di armonica e leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, e mai possono essere lesive del principio solidaristico alla base del nostro tessuto civico-costituzionale.

Finita o attenuatasi l’emergenza pandemica, l’Italia dovrà affrontare un grandioso piano di rinascita e rilancio: investimenti e progetti che, se dovesse prevalere come nel recente passato, la logica degli egoismi territoriali e la prassi dei veti incrociati tra Stato, Regioni ed enti locali rischiano di risolversi in una clamorosa occasione persa. Ragione di più per auspicare un riordino dal punto di vista istituzionale della struttura dei nostri poteri pubblici. Pur sapendo che il problema non è solo di regole, procedure e forme costituzionali, ma in gran parte politico. 

Quello che è accaduto negli ultimi anni nei rapporti – sempre più asimmetrici e disfunzionali– tra Stato e Regioni è anche la conseguenza di un processo di rifeudalizzazione della politica a livello territoriale causato, in gran parte, dalla crisi dei partiti su scala nazionale e dal venir meno della loro capacità di raccordo e indirizzo.

I partiti, anche quando hanno una solida organizzazione centralizzata, tendono a subire sempre più il peso delle consorterie e dei potentati locali. Il centro comanda ma la periferia non obbedisce, essendosi in gran parte sfilacciati i legami di lealtà politico-ideologica che un tempo governavano le relazioni politiche. Quanto allo spirito d’indipendenza che sempre più spesso anima presidenti di Regione e sindaci, sino a farne dei ras talvolta pittoreschi, talaltra politicamente forieri d’instabilità, dipende dal fatto che sempre più spesso essi vengono eletti, non come rappresentante di un dato partito, ma per essersi messi a capo di vaste coalizioni o di raggruppamenti civici ai quali i partiti fanno, quando va bene, da portatori d’acqua. 

Ciò li mette in una posizione di grande forza e visibilità, ma dal punto di vista politico e dei risultati gestionali l’esercizio del potere su basi personalistiche quasi mai produce risultati all’altezza dei bisogni dei cittadini. In un sistema politico nel quale gli attori tendono ad agire in una chiave particolaristica e secondo una visione localistica e microterritoriale, senza coordinarsi tra loro e con il centro, ci si paralizza a vicenda e tutti alla fine hanno da perdere. 

Ciò significa che riarticolare la trama delle nostre istituzioni (con l’obiettivo di avere autonomie più funzionali nella cornice di uno Stato più autorevole) significa anche ricostruire, con nuovi equilibri, l’attuale sistema dei partiti e le culture politiche che dovrebbero sostenerli. 

Qualcosina, nelle pieghe d’una così terribile crisi e con la nascita del governo di emergenza/decantazione guidato da Draghi, sembra intravvedersi andando nella direzione d’una simile ricostruzione. Un cammino tanto necessario quanto lungo e difficile: tanto vale cominciarlo al più presto.

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