Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Occasione Recovery/ Quel “ponte” dell’Italia Centrale da ricostruire

Occasione Recovery/ Quel “ponte” dell’Italia Centrale da ricostruire
di Luca Diotallevi
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Mercoledì 31 Marzo 2021, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 1 Aprile, 00:20

Sia i favorevoli che i contrari alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina condividono l’idea che migliorare i collegamenti significa favorire lo sviluppo. Una verità ancora più evidente quando i ponti crollano.
Se oggi il Mezzogiorno è più lontano dal Nord e dall’Europa, ciò dipende anche dal crollo di un “ponte”, un “ponte” che ci si era abituati a dare per scontato. Dopo l’unità, per oltre un secolo, l’Italia Centrale è stato il “ponte” tra Nord e Sud. Negli ultimi lustri è crollato travolto dalla sua crisi economica, sociale e demografica.
Nel quadrilatero dell’Italia Centrale (Lucca, Pesaro, Pescara, Roma) vivono e lavorano almeno 22 milioni di persone: tra un quarto ed un quinto della popolazione italiana. La sua importanza, già grande in questi termini piuttosto grossolani, cresce ulteriormente se si pensa alla doppia funzione strategica che nel corso del Novecento quest’area aveva assicurato al sistema Italia (connettere ed intrecciare Nord e Sud) ed al sistema Europa (avere salde radici nel Mediterraneo).


Da almeno tre decenni sulle strutture di questo “ponte” si sono prodotte crepe profonde: economiche, culturali, civiche, demografiche. La sua crisi ha contribuito ad allargare la forbice tra Nord e Sud, ha imposto all’ “Europa di fatto” una comoda ritirata verso l’area padana.

Un paio di controprove possono essere sufficienti. Roma non è Milano anche perché non ha una Bergamo, una Brescia, una Verona, una Modena, una Parma, una Pavia, con le quali cooperare, dividersi il lavoro, ma anche competere. Milano è il centro di un sistema i cui tanti poli sono tutti in movimento; Roma rischia di ridursi all’imbuto in cui spiove di tutto: risorse, certo, ma anche enormi problemi e drammatiche tensioni. 
All’inverso, laddove una porzione di “ponte” ha retto, le cose stanno andando in modo ben diverso. Non potremmo mai spiegare la dinamicità pugliese e dell’Abruzzo costiero, se non considerassimo la funzione che ha svolto e svolge con crescente energia il “corridoio adriatico”.
Di conseguenza per il nostro Paese e per l’Unione Europea l’Italia Centrale pesa oggi, ed ancor di più in prospettiva, ben al di là dei suoi 22 milioni di abitanti (comunque tanti: gli olandesi sono 17 milioni, 12 i francesi dell’Ile de France, 18 i tedeschi della Renania Westfalia o 12 quelli della Baviera). 
Se questo è vero, la domanda urgente allora è la seguente: il “peso” materiale e strategico dell’Italia Centrale si rifletterà nei programmi di impiego del Next Generation EU che saranno approntati dal governo italiano?
Nei prossimi decenni avremo tutto il tempo per discutere quanto eventualmente ci sarà costato non aver riconosciuto il peso della “questione Italia Centrale”, ma se vogliamo evitare che questo si verifichi adesso è il momento di usare tutte le forze a disposizione per imporre il problema o mai più. Rispetto al Recovery plan la “questione Italia Centrale” va trattata non come una questione settoriale o particolare, ma come una questione strategica, di rilievo nazionale e continentale. E nell’interesse generale, non solo in quello particolare.
Infatti, riconoscere la “questione Italia Centrale” significa anche impostare nel modo migliore tutto l’Italian recovery e l’European recovery. 


Se vogliamo che gli anni che abbiamo di fronte vedano la ripresa delle società aperte, dei loro valori e delle loro regole, il presente e il futuro non vanno letti con il filtro degli Stati o dei settori economici, ma con la lente delle città. 
Negli ultimi 30 anni i sociologi e gli economisti ci hanno insegnato che l’ordine sociale “aperto” che si stava affermando non aveva i tratti ed i confini degli Stati, non era scomponibile per settori produttivi (attraversati invece, tutti, da trasformazioni che ne riducevano le specificità).

Piuttosto, il volto del nuovo ordine “aperto” aveva innanzitutto i tratti delle global cities a loro volta centro di altrettante reti di città medie e medio-grandi (city regions). Il sogno europeo - meglio ancora: la “profezia europea” - non nacque negli anni ’40 come progetto di un super Stato, ma come programma post-statuale tessuto a partire dalla culla storica della città. Tradotto: le global cities e le reti di città non dovevano essere più imprigionate dentro gli Stati, ma cominciare ad essere servite da agenzie europee, nazionali (i pezzi ancora utili dei vecchi Stati) e regionali produttrici di servizi, a cominciare dalla difesa e dalla gestione di emergenze sanitarie ed ambientali. In una parola: dalle monarchie (degli Stati) alla poliarchia (delle città).


In questa prospettiva, mettere in cima alle priorità la “questione Italia Centrale” costringe l’Italia (ma anche l’Unione Europea) a fare i conti con un tipico problema italiano (ma anche europeo). Abbiamo ormai tante città medie e poche vere global cities (in Italia sostanzialmente una sola: Milano). 


E dunque: come trasformare tante città medie e medio-grandi in una grande rete di città? È possibile combinare la eccezionale qualità urbana delle città medie e le dinamiche che passano per le global cities? Dare una risposta a queste domande significa anche dare una risposta alla domanda se Roma può diventare una global city.
Le rivoluzioni avvenute nelle infrastrutture che muovono merci, persone e informazioni (navali, aeree, su ferro, su gomma, digitali) offrono una occasione straordinaria per mettere in rete le città medie e medio grandi dell’Italia Centrale (geograficamente molto vicine), e così la rivoluzione della logistica e dell’intermodalità. Esse rendono non più attuale l’alternativa tra “natio borgo selvaggio” e altrettanto marginali periferie urbane. Esse rendono possibile ripensare la città avvicinando i paradigmi della mobilità extraurbana ed urbana, e quelli di mobilità ed abitabilità, e ancora: istanze ambientali e produttive. Oggi, fare “parco naturale” può avere un significato più vicino al suo etimo latino (tenere insieme) che al suo etimo germanico (separare).


Abbiamo già strumenti giuridici e politiche che incentivano una convergenza (senza necessario sacrificio di identità) di Comuni piccoli e piccolissimi su centri urbani medi e medio grandi, ma debbono essere potenziati. Non abbiamo invece strumenti e politiche che consentano alle città di acquistare da amministrazioni regionali e nazionali alcuni servizi ed altri no, e di liberarsi dal dogma tanto cieco quanto dannoso della uniformità di modello amministrativo. 
Abbiamo urgente bisogno che sia (ri)spalancata la via ad un federalismo diverso: centrato sulle città ed a profilo variabile. Affrontare la “questione Italia Centrale” richiede tutto questo e per questa ragione può divenirne laboratorio nazionale ed europeo.


Sicché la domanda resta: il Recovery plan italiano e la cosiddetta agenda Draghi riconosceranno il valore strategico della “questione Italia Centrale”?

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