Ruben Razzante
Ruben Razzante

L’odio in rete e il rischio per la democrazia

di Ruben Razzante
4 Minuti di Lettura
Martedì 26 Settembre 2023, 00:26

Gli incendi verbali che divampano quotidianamente in Rete sono la cartina al tornasole di una degenerazione delle relazioni interpersonali e rischiano di minare il patto sociale che assicura la pacifica convivenza tra gli esseri umani. Sempre più spesso il web e i social sono abitati da personalità violente che utilizzano quegli strumenti per dare sfogo alle loro pulsioni individuali, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze di ciò che pubblicano. La libertà di manifestazione del pensiero nello spazio virtuale si muove su un crinale pericoloso che altera la dialettica democratica e avvelena il vivere civile. Parlarne non basta, perseguire tutti gli abusi è pressoché impossibile, stante l’incontrollata viralità dei messaggi veicolati dagli odiatori seriali. C’è bisogno di un vero e proprio colpo d’ala nelle strategie di contrasto all’odio in Rete, che significa anzitutto inquadrare tutti i profili e i risvolti del fenomeno per poi concertare efficaci azioni di repressione ma anche interventi preventivi e di sensibilizzazione.


Un contributo prezioso a questo disegno di rigenerazione della libertà d’espressione in Rete proverà a offrirlo la Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, presieduta dalla senatrice a vita Liliana Segre, che nei giorni scorsi ha inaugurato i suoi lavori in Senato, avviando un’indagine conoscitiva volta ad analizzare tutte le sfaccettature dell’emergenza hate speech. Uno degli equivoci più ricorrenti nell’ambiente digitale si manifesta in molti dibattiti dai toni accalorati, quando imprudentemente si accetta che l’esercizio del diritto di critica travalichi i confini del rispetto dei diritti della persona per sfociare nell’insulto gratuito e nella denigrazione.


D’altronde ad oggi ancora non esiste una definizione univoca di discorso d’odio o hate speech. Tuttavia, già nel 1997 il Consiglio d’Europa ha elaborato una prima spiegazione del fenomeno, ampliata nel 2015 da una raccomandazione politica redatta dalla Commissione contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) dello stesso Consiglio. Tale documento chiarisce che per discorso d’odio si intende “il fatto di fomentare, promuovere o incoraggiare, sotto qualsiasi forma, la denigrazione, l’odio o la diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo, nonché il fatto di sottoporre a soprusi, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce una persona o un gruppo […]sulla base della ‘razza’, del colore della pelle, dell’ascendenza, dell’origine nazionale o etnica, dell’età, dell’handicap, della lingua, della religione o delle convinzioni, del sesso, del genere, dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e di altre caratteristiche o stato personale”. 


Finora l’Unione Europea non ha ancora cercato di arginare il fenomeno con interventi normativi, anche se nel 2016 ha convinto le maggiori piattaforme di social media a firmare un codice di condotta per il contrasto all’hate speech online.

L’Italia, con la Commissione inaugurata dalla senatrice Liliana Segre, si prepara a porre le basi di un sistema che distingua “dove finisce il diritto alla critica e la libertà di manifestazione del pensiero e dove inizia l’odio insopportabile e illegale”.


Le piattaforme web e social si confermano tristemente il teatro privilegiato dei cosiddetti “leoni da tastiera”, che troppo spesso danno sfogo alla propria natura violenta facendo eco ai contenuti pubblicati online da figure di rilievo, anche protagonisti della scena politica. In questi casi è giusto domandarsi come debba essere ripartita la responsabilità: è ragionevole ritenere colpevoli soltanto gli utenti della Rete che scrivono commenti colmi d’odio, quando la miccia è stata innescata da altri? Istigatori e provocatori non possono essere di certo definiti innocenti, anzi occorrerebbe attivare dei meccanismi per individuarli e punirne le esternazioni laddove non possano configurarsi come libere espressioni di idee ma, più pericolosamente, come armi taglienti e offensive della dignità altrui.


La questione è complessa, il dato di fatto è che le piattaforme web e social rappresentano degli enormi amplificatori dei contenuti d’odio e diventa sempre più evidente la necessità di far sedere i colossi del web intorno ad un tavolo e convincerli a firmare un impegno solenne, che preveda la loro stabile e non saltuaria collaborazione con le istituzioni per “spegnere i microfoni” a coloro che diffondono contenuti nocivi per la convivenza sociale. I numeri non mentono e restituiscono un quadro preoccupante. In particolare quelli diffusi dalla Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio: all’interno di un campione di 629 mila tweet raccolti nel 2022, ben il 93% era costituito da commenti negativi. Un trend che peggiora di anno in anno e che vede un tasso di hate speech rivolto alle donne superiore di 1,5 volte rispetto a quello dei discorsi d’odio che hanno per bersaglio gli uomini. C’è quindi un’emergenza di genere all’interno dell’emergenza più generale del linguaggio d’odio.


Tuttavia, se la strada per sconfiggere o quanto meno ridimensionare l’odio in Rete appare in salita, l’opportunità offerta dalla Commissione Segre non va sprecata e richiede anzi l’impegno unanime di tutte le forze politiche nella direzione di una decontaminazione del linguaggio e di una ossigenazione dei circuiti del dialogo costruttivo e inclusivo, nel rispetto delle diversità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA