Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Il nodo riforme/ Il teatrino populista che delude gli italiani

di Paolo Pombeni
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Lunedì 13 Febbraio 2023, 00:01

Per abbassare i toni bisognerebbe guardare alto e lontano. Questo potrebbe essere l’avvio di una riflessione su una fase in cui la ricerca di salire sul palcoscenico del teatrino della politica fa dimenticare la complessità non solo dei problemi che ci stanno davanti, ma le opportunità di raggiungere obiettivi importanti.
È chiaro che ogni volta che ci si concentra su un problema astraendolo dal contesto diventa facile reclamarne l’importanza. Vuoi che il tema della vita di un detenuto, per quanto colpevole, non sia importante? E che dire della riforma del sistema delle intercettazioni usate senza rispetto per la tutela della comunicazione privata come previsto dalla Costituzione? E avanti in un elenco che può facilmente diventare lunghissimo: come promuovere il merito a scuola e come tutelare l’inclusione sociale, come diffondere riflessioni sulle nostre colpe storiche, come contrastare una difesa senza ragioni della licenziosità in molti campi, come avere tutto “green” a qualunque costo, e avanti, avanti, avanti.

Ovvio che sono tutte cause che, gestite con il dovuto equilibrio, meritano considerazione e impegno per risolvere i problemi. Cessano però di avere significato se da un lato vengono esasperate come se ciascuna meritasse di mettere da parte tutto il resto, e se dall’altro le si trasforma in bandiere o bandierine per lotte di fazione, magari nella convinzione che così si raggranella qualche punticino in più nei sondaggi pre elettorali (nelle elezioni vere si vedrà).
Il fatto è che difficilmente i molti temi su cui si fa “agitazione” potranno trovare soluzioni se non saremo in grado di promuovere un quadro di stabilizzazione politica, sociale ed economica. Le riforme, gli adeguamenti dello spirito civico si realizzano quando prevale un sentimento di solidarietà e coesione verso quello che una volta meritoriamente si chiamava il progresso. Si deve sapere che questa è la domanda profonda che sale dal paese, scosso più di quel che si pensa non dagli scontri fra tifoserie di pseudo ideologi, non dalle intemerate dei predicatori laico-politici che affollano i nostri schermi, ma dalla preoccupazione e talora dall’angoscia per un futuro che non solo non si riesce a pensare migliore presente, ma addirittura in regresso sul recente passato.

L’appello allo “stringersi a coorte” che suona nelle rime romantico-risorgimentali del nostro inno nazionale non è più di moda. Eppure era da tanto tempo che l’Italia non si trovava di fronte ad una grande sfida che è al contempo una grande opportunità. Come non definire così i circa duecento miliardi di euro (forse anche qualcosa di più con qualche aggiunta) che ci sta mettendo a disposizione il piano del Recovery europeo? Non sono soldi che arrivano da un improbabile Babbo Natale di Bruxelles perché ci togliamo un po’ di “sfizi”, perché li disperdiamo nel sostegno a tanti piccoli progettini limitati in modo che tutti possano avere una qualche soddisfazione. È la messa a disposizione del nostro sistema nazionale delle risorse per affrontare e superare i blocchi allo sviluppo, i colli di bottiglia che hanno incancrenito e aumentato un sistema di diseguaglianze, le ristrettezze, colpevoli o meno che siano state, a causa delle quali ambiti come la sanità e l’istruzione non appaiono capaci di essere stazioni di sviluppo in ogni parte del paese.
Chi si occupa della situazione del Pnrr fa notare, sottovoce o con una certa chiarezza a seconda della libertà di esprimersi che può avere, come ci sia una grande fatica a mettere a terra i progetti più impegnativi e talora anche quelli di appena media complessità.

Impattano sull’avvio delle imprese e sui tempi di esecuzione le viscosità che si sono lasciate crescere, non senza compiacenze interessate di chi ritiene di poterne usare a proprio profitto. In un quadro di tensioni politiche crescenti, di lotte più o meno intestine nei vari partiti oltre che fra di loro, si creano le condizioni per rendere tutto più difficile.

È venuto il momento di abbandonare questo modo di fare politica. Anziché ricorrere continuamente all’allargamento dei vari orti o orticelli che siano, occorre puntare sulla stabilizzazione del quadro generale. Tocca tanto al governo, quanto alle opposizioni. Il primo deve abbandonare il compiacimento del rimarcare una vittoria elettorale a lungo attesa lasciando libero corso a quanti pensano che l’importante sia appuntarsi al petto medagliette e nastrini per certificare i meriti in battaglie che loro pensano siano epocali. Le seconde devono capire che se l’obiettivo del costituzionalismo democratico è garantire l’alternanza, questa deve esplicitarsi nel sostegno a quanto si può fare nell’interesse del paese, perché domani un paese migliore potrà eventualmente scegliere loro, mentre a governare su un cumulo di rovine non è che ci sia gran gusto.
Sono considerazioni difficili da far accettare ai tanti che pensano la politica come un grande scontro di opposte retoriche esasperate e non come strumento di costruzione, collettiva e dialettica al tempo stesso, di un paese più coeso, più solidale, più capace di distribuire opportunità di un futuro migliore per tutti.

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