Giuseppe Vegas
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Il nuovo mondo/Le minacce che l’Europa non può (più) ignorare

di Giuseppe Vegas
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Domenica 15 Ottobre 2023, 00:01

Dove sta andando l’Europa? È una domanda che evitiamo spesso di porci, per non essere spaventati dalla risposta. E non intendiamo davvero riferirci all’esito delle prossime elezioni europee: se parlamento e commissione vedranno ancora la centralità della trazione popolare e socialista, oppure la prevalenza sovranista. Certo, dalle scelte dell’elettorato potranno derivare impostazioni delle politiche del prossimo quinquennio anche assai differenti dal passato. Si tratta di una questione molto rilevante, ma che non va al cuore del problema. A quindici anni dalla prima delle crisi che si sono abbattute come un uragano sul Vecchio Continente, anche l’osservatore più distratto non può fare a meno di confrontarsi con la realtà.

La grande crisi economica del 2008, quella del debito sovrano del 2011 e, contemporaneamente, la primavera araba, la pandemia poi nel 2020, la guerra in Ucraina nel 2022, la sfida dei Brics – i vecchi paesi non allineati - e infine la crisi senza precedenti di questi giorni nel medioriente hanno cambiato il mondo nel tempo di un battito di ciglia. Se al tutto si unisce l’affermarsi delle due grandi superpotenze orientali, la Cina, in primis, e l’India, e il correlato affievolirsi della leadership statunitense, il quadro globale che ci si presenta nel nuovo secolo non offre certo una prospettiva che ci consenta sonni tranquilli. Di fronte a questa svolta nella storia, l’Europa si è persa nei dettagli. È andata costruendo un edificio carico di begli ornamenti, ma con fragili fondamenta. Quasi non avesse né la voglia né i mezzi per affrontare la situazione per quello che è, malgrado il fatto che si sia data molto da fare. Per la prima volta ha varato in tempi inusualmente rapidi l’unione bancaria, ha offerto una risposta unitaria ed efficace per combattere la pandemia ed ha finanziato un programma straordinario di ben 750 miliardi per la modernizzazione. Frangenti nei quali ha trovato la forza per superare incertezze e divisioni. Ma si è fermata dinanzi alla soglia della ragione della sua esistenza.


Tutto è cominciato nel 2004 in occasione della revisione dei trattati fondativi e dell’approvazione della cosiddetta costituzione europea. Allora si consumò un duro confronto sull’opportunità di inserire nel testo un richiamo alle nostre radici giudaico-cristiane. Come è noto, la proposta non venne accettata. Tramontò così la possibilità di individuare una comune base ideale dell’essere europei.


Ci si affidò allora preferibilmente a riferimenti culturali o economici: alla libertà e alla moneta. La libertà rappresenta in sé molto di più di un anelito culturale, ma non individua sempre un concetto univoco. Non si discute solo sulla circostanza se essa debba essere declinata al singolare o al plurale. Se cioè costituisca un unicum inscindibile, oppure possa essere riferita a ciascuna delle sfaccettature che la compongono: personale, politica, di manifestazione del pensiero, economica, ecc.. Ma anche ai suoi limiti. Che discendono da scelte legislative che conferiscono più o meno ampi diritti ai cittadini.

In sostanza, il principio di diritto naturale di libertà finisce per essere applicato dal diritto vigente. E non sempre ha la meglio. Quanto alla moneta, essa incorpora sicuramente un valore simbolico. Ma non è altro che uno strumento di pagamento, che non identifica una comunità, se non sotto l’aspetto commerciale. Ad esempio, il dollaro ancora oggi è il principale mezzo di scambio, ma viene utilizzato anche da soggetti ostili allo Stato emittente.


Di conseguenza, è molto difficile che un riferimento ideale, per certi aspetti ambiguo - basti pensare all’utilizzo della parola libertà da parte di comunismo e nazismo – o uno materiale, o, peggio ancora, un insieme di complesse regole procedurali possano costituire le basi per fondare una comunità di popoli. Naturale dunque che l’afflato morale unificante dei sottoscrittori del Trattato di Roma del 1957 abbia gradualmente ceduto il posto ai distinguo e al confronto di interessi nazionali contrapposti. Così ci si è concentrati sui dettagli e si è fatto finta di non vedere il quadro nella sua interezza.


Abbiamo visto divisioni ed egoismi già alla fine del secolo scorso, quando ci si è affidati a calcolatori senz’anima per misurare chi fosse in grado di entrare a far parte dei paesi che avrebbero adottato l’euro, lo abbiamo visto poi ad Atene, e in tempi più recenti nella politica ambientale, in quella dei migranti e in occasione della guerra in Ucraina. Ed oggi nella situazione assai più drammatica dell’aggressione ad Israele.
Perché, è inutile girarci attorno, tutto ciò che sta avvenendo non è altro che il cambiamento della direzione di marcia del mondo, dall’occidente all’oriente. Quest’ultimo non vuole più sottostare alla supremazia economica e culturale del primo e il primo manifesta l’arrendevolezza di chi si sente in colpa perché gode di condizioni di vita non accessibili ai più. E, come sempre accade in queste circostanze, chi non affronta apertamente i veri problemi e mette in atto la politica dello struzzo, quando solleverà la testa dalla sabbia constaterà che il mondo non è più quello che aveva costruito.


Decidere con chiarezza da che parte stare, concentrare le risorse verso gli obiettivi prioritari, costruire una maggioranza di governo delle istituzioni comunitarie solida e possibilmente inclusiva dovrebbero essere gli obiettivi che l’Europa del 2024 dovrebbe darsi per evitare la sua disgregazione. Ma, per ottenere un risultato, sarebbero necessari due presupposti: che le forze politiche che parteciperanno alle prossime elezioni trovino un terreno di intesa comune, di qua e di là dalle Alpi e nei singoli paesi, almeno sulle grandi linee delle politiche europee, a cominciare dai rapporti esterni, e che l’esecutivo che nascerà a Bruxelles sia il più inclusivo possibile. Come propugnava Giuseppe Mazzini, è l’ora del “comune intento”.
 

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