Si potrebbe citare un vecchio spot televisivo che diceva: «Ti piace vincere facile». È un po’ quello che ha provato a fare lo Stato con i dipendenti pubblici che avevano presentato numerosi ricorsi per vedersi riconosciuti degli aumenti di stipendio relativi agli anni che vanno dal 1990 al 1993. I giudici stavano interpretando le norme dando ragione agli statali che avevano presentato ricorso. Poi è arrivata una norma che ha “ribaltato” le sentenze. Così la vicenda è arrivata fino alla Corte Costituzionale, che invece ha stabilito che non si possono fare leggi, tra l’altro retroattive, per risolvere un contenzioso di cui l’amministrazione è parte in giudizio. Un principio si potrebbe dire di civiltà giuridica. Ma qual è il tema affrontato dalla sentenza? Per capire di cosa si sta parlando bisogna fare un salto indietro nel tempo di oltre 30 anni, al 1989, quando con un accordo sindacale nel pubblico impiego furono decisi degli “scatti di anzianità” per i dipendenti pubblici: 300 mila delle vecchie lire per la prima, seconda e terza qualifica dell’area funzionale; 400 mila lire per la quarta, quinta e sesta qualifica, e 500 mila lire per la settima, ottava e nona qualifica funzionale.
Queste maggiorazioni spettavano a coloro che al primo gennaio del 1990 avessero maturato un’esperienza professionale di cinque anni.
Con una manovra di Bilancio ha cambiato le carte in tavola e ha fatto pendere la bilancia a suo favore. Con la legge 388 del 2000 ha dato una sua “interpretazione” della proroga del Dpr, dicendo, nella sostanza, che si prorogava tutto tranne la norma sugli scatti di anzianità per gli statali. Una lettura che però è stata completamente ribaltata dalla sentenza della Corte Costituzionale redatta dal giudice Marco D’Alberti. «La sentenza», spiega un comunicato della Corte, «ha innanzitutto chiarito che il controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene ancor più stringente qualora l’intervento legislativo incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica, essendo precluso al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio». Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che «solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso» e che «i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile».
IL DISPOSITIVO
Nel caso in esame non sussistevano imperative ragioni di interesse generale a giustificazione della legge. Anzi, psiega la sentenza, la possibilità per i dipendenti di maturare l’anzianità di servizio necessaria alla maggiorazione anche nel corso del nuovo periodo (1991-1993) rispondeva pienamente a ragioni di eguaglianza e di giustizia del sistema retributivo. «Semmai», dice la sentenza, «è stata la disposizione censurata ad aver causato una ingiustificata differenziazione retributiva a danno di quei dipendenti pubblici che, diversamente da quanto avvenuto in relazione al triennio 1988-1990, non hanno potuto valorizzare l’anzianità di servizio maturata nel successivo triennio 1991-1993». Cosa accadrà ora? I sindacati stanno esaminando il dispositivo per capire se questi aumenti potranno essere riconosciuti anche a coloro che non hanno ancora fatto ricorso. E si potrebbe trattare di decine di migliaia di persone.