Stipendi più bassi che nel resto d’Europa e sostanzialmente inchiodati ai valori di trent’anni fa in termini reali, ovvero mettendo nel conto l’inflazione che si è manifestata nel frattempo.
La questione retributiva è sempre più attuale e urgente in Italia: ma mentre si discute dei possibili interventi (dall’ulteriore riduzione del cuneo fiscale alla fissazione di un salario minimo, che però non piace al governo) può essere utile guardare più da vicino quello che è successo nel nostro Paese negli ultimi anni. I dati Istat da poco disponibili, che riguardano il periodo compreso tra il 2021 e il 2022, raccontano una storia a due facce. Da una parte i lavoratori dell’industria che in questi dodici anni hanno visto un incremento in termini nominali di circa il 20 per cento, dall’altra quelli del terziario che si sono fermati a circa la metà, l’11 per cento. Si può notare che nel primo caso l’incremento consente agli interessati di assorbire integralmente l’effetto della corsa dei prezzi, compreso il balzo dell’8 per cento dell’ultimo anno; senza quest’ultimo, il valore delle retribuzioni avrebbe avuto un notevole incremento anche in termini reali. Gli altri dipendenti invece si devono rassegnare a una vistosa erosione del proprio potere d’acquisto, che con buona probabilità è purtroppo destinata a proseguire, almeno nel breve periodo.
L’ALLUNGO
Come si vede dal grafico in questa pagina, l’allungo dell’industria si è manifestato in modo forte in particolare nella prima parte del periodo considerato, fino al 2015, quindi in una fase in cui il nostro Paese sostanzialmente arrancava nella recessione; ma è poi proseguito negli anni successivi, pur se con minore intensità. Sul piano storico, le ragioni profonde di questa situazione vanno ricercate anche nel mutamento dello stesso mondo dei servizi, caratterizzato sempre di più da attività a basso valore aggiunto e quindi dalla prevalenza di mansioni che prevedono poca o nessuna formazione e in generale basse retribuzioni. Al contrario si riduce il peso dell’occupazione in servizi più qualificati, come quello finanziario, mentre non fornisce un contributo adeguato il cosiddetto terziario avanzato, in un Paese che ha saputo beneficiare meno degli altri dell’ondata di innovazione tecnologica in corso almeno dagli anni Novanta. Se dopo aver ripercorso l’evoluzione nel tempo volessimo avere anche un’istantanea della situazione, potremmo ricorrere ad altri dati, quelli relativi ai contratti collettivi di lavoro inseriti dall’Inps nell’ultimo Rapporto annuale. Le differenze in termini di retribuzione media giornaliera nel 2021 sono abbastanza illuminanti.
GLI ESEMPI
Nell’industria chimico-farmaceutica si tocca (per chi lavora a tempo pieno) un valore di 123 euro lordi, mentre quella alimentare arriva a 106 e le aziende metalmeccaniche si attestano a 104. Nel campo dei servizi troviamo sopra quota 100 solo quelli di telecomunicazione, mentre risultano vistosamente più bassi i compensi giornalieri medi nei pubblici esercizi e nella ristorazione (69 euro), nei settori socio-assistenziali (68) nelle imprese di pulizia e multiservizi (67) nei centri di benessere (50) ma anche negli studi professionali che non vanno oltre 73 euro.
LA STAGNAZIONE
Il distacco tra industria e terziario contribuisce a fare luce sulle cause della nostra stagnazione complessiva, riepilogata nell’ormai celebre grafico ricavato dai dati Ocse per il periodo 1990-2020 (sul quale, per inciso, il nostro Paese ha recuperato leggermente terreno l’anno successivo). I nodi sono la produttività e l’innovazione tecnologica, insieme a quello già ben noto della dimensione delle imprese. Proprio quest’ultimo fattore è in realtà un altro potente indicatore della diseguaglianza salariale, in parte collegato alla dicotomia tra industria e servizi. Usiamo qui un dato riassuntivo dell’Istat, relativo alle retribuzioni – in questo caso orarie – per l’anno 2018. Le differenze corrono lungo l’asse territoriale e prevedibilmente caratterizzano anche le diverse fasce di età e di istruzione; ma risulta confermata anche la regola empirica per cui le grandi imprese sono quelle che offrono ai propri lavoratori retribuzioni più sostanziose. A fronte di una media nazionale oraria di 15,8 euro l’ora, nelle imprese con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 49 dipendenti il valore scende a 12,8. E va considerato che l’indagine sulla struttura delle retribuzioni in Italia elaborata dall’istituto di statistica riguarda solo le realtà con almeno 10 addetti: gli importi al di sotto di questa soglia sono generalmente ancora più bassi. Del resto le stesse tabelle contrattuali dell’Inps citate in precedenza evidenziano – a parità di attività – compensi più limitati nelle aziende artigiane, che sono di dimensioni minori. Quali indicazioni si possono trarre da questa panoramica? Il tema delle retribuzioni è diventato sempre più scottante da quando alle criticità proprie del sistema italiano, in particolare nel confronto con gli altri Paesi europei, si è aggiunto l’impatto dell’inflazione; che per ora non ha trovato compensazione in aumenti salariali, trasformandosi di fatto in un’imposta impropria.
L’ESPOSIZIONE
Risultano più esposti proprio i lavoratori di quei settori che già negli anni scorsi avevano mostrato maggiore debolezza. Con i prossimi rinnovi contrattuali si potranno valutare i margini di recupero: il contratto firmato da poco per i 70mila dipendenti italiani di Stellantis, Iveco, Cnh e Ferrari prevede un incremento percentuale dell’11 per cento in due anni, sostanzialmente in linea con l’andamento dell’inflazione. Resta intatta però, nella sua drammaticità, la questione del lavoro “povero”. L’esecutivo non è a favore di una norma che introduca anche in Italia forme di salario minimo, come chiede invece l’opposizione. Ma in prospettiva, la creazione di occupazione più qualificata resta almeno sulla carta un passaggio obbligato.