Imprese, il costo del taglio Irpef lo pagheranno loro: rischio di aumento dei debiti

Nasce un nuovo fondo per ridurre le tasse e avrà una dota di 3,5 miliardi grazie all'abolizione dell'Ace

Imprese, il costo del taglio Irpef lo pagheranno loro: rischio di aumento dei debiti
di Andrea Bassi e Luca Cifoni
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 6 Dicembre 2023, 12:01 - Ultimo aggiornamento: 7 Dicembre, 06:00

E' stato inserito tra le pieghe della riforma fiscale. Nella sostanza è una sorta di “salvadanaio”.

Una cassaforte che ha lo scopo di allungare la vita alle prime misure di taglio delle tasse introdotte dal governo guidato da Giorgia Meloni e, se possibile, aumentarne la portata. Compito obiettivamente non facile. Ma il “Fondo per l’attuazione della delega fiscale”, il salvadanaio di cui sopra, nei prossimi mesi potrà raccontare anche altro. Racconterà cioè, chi sono i vincitori e chi invece i vinti della nuova politica fiscale disegnata dalla delega firmata dal vice ministro dell’Economia Maurizio Leo. In quel fondo, per esempio, finiranno i proventi della “Global minimum tax”, la tassa che ha l’intento di recuperare gettito dalle multinazionali, soprattutto quelle dell’online. Ma qualcosa in realtà già la dice. Il fondo potrà contare su una dote di 3,5 miliardi di euro per il 2025, e circa 2,7 miliardi l’anno a partire dal 2026. Soldi che dovrebbero servire tra l’altro a proseguire dopo il 2024 l’alleggerimento dell’Irpef, e arrivano dall’abolizione dell’Ace, ovvero l’“Aiuto alla crescita economica”. Si tratta di un’agevolazione fiscale introdotta oltre dieci anni fa per spingere la patrimonializzazione delle aziende.

IL PASSAGGIO

Più precisamente, l’obiettivo era ristabilire la neutralità fiscale della tassazione del reddito di impresa rispetto alle fonti di finanziamento, e in questo modo controbilanciare la deducibilità degli interessi passivi come remunerazione del capitale di debito. Nel merito, veniva prevista la deducibilità anche della remunerazione figurativa del capitale proprio (senza distinguere tra nuove azioni e autofinanziamento); risultavano tassati quindi solo gli extra profitti. Da un punto di vista fiscale la misura, insomma, serviva a trattare allo stesso modo il prestito in banca e il capitale dell’imprenditore. E in questa chiave era stata apprezzata dalle imprese. Tanto è vero che il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, ascoltato in Parlamento, non aveva mancato di far notare come le imprese si trovassero «nella rarissima occasione dove una manovra espansiva toglie risorse al sistema produttivo perché toglie l’Ace», 4,6 miliardi. «Su 30 miliardi di misure espansive», aveva detto, «quasi al 55% sono dedicate ai lavoratori e solo il 9,4% alle imprese». La detassazione delle nuove assunzioni, introdotta in (parziale) sostituzione della misura cancellata, non ha mai convinto gli industriali. Meglio l’Ace, insomma. C’è da capirlo. Basta leggere la lunga relazione scritta dall’Upb, l’Ufficio Parlamentare per il Bilancio, sulla questione.

Ma davvero, si sono domandati i controllori dei conti pubblici italiani, conviene spingere le imprese di nuovo a indebitarsi piuttosto che a utilizzare i propri mezzi? L’abolizione dell’Ace, scrive l’Upb, «costituisce una modifica strutturale del disegno dell’imposta sul reddito delle imprese che comporta la rinuncia alla neutralità tributaria sulla scelta delle fonti di finanziamento. Rappresentando solo il primo tassello di un progetto di riforma più ampio, le finalità della sua abolizione», sottolineano i tecnici, «sono difficili da individuare». La cronica sottocapitalizzazione delle imprese italiane costituisce, dice l’Upb, «un fattore di notevole vulnerabilità del sistema produttivo italiano e proprio per questo è stata costantemente oggetto di preoccupazione nelle fasi sfavorevoli del ciclo economico e in presenza di crisi internazionali». La prevalenza di imprese familiari, la ridotta portata del mercato azionario e un sistema fiscale che ha a lungo nettamente favorito l’indebitamento sugli apporti di capitale di rischio hanno concorso «a sbilanciare il finanziamento verso capitale di terzi». Ma il «favore fiscale per il debito, comune alla gran parte dei sistemi di tassazione delle imprese, non è peraltro una preoccupazione relativa alla sola economia italiana», soprattutto dopo che la crisi innescata dalla pandemia ha reso evidenti le fragilità di tutto il sistema europeo.

L’ANALISI

L’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha anche svolto un’analisi di tutte le aziende che dal 2015 in poi hanno utilizzato l’Ace. E i risultati sono abbastanza eloquenti. Per tutte si è registrata una riduzione dell’indebitamento e un aumento del rendimento del capitale proprio. La domanda successiva è abbastanza scontata. Cosa accadrà quando l’Ace non ci sarà più? Sempre l’Upb ha provato a calcolare quale sarà la differenza di “costo” tra l’indebitamento e l’uso di capitale proprio. Con le attuali norme il costo di un euro di indebitamento, grazie agli sgravi fiscali, è di 0,76 euro. Che sale a 0,78 se la deducibilità degli interessi passivi viene limitata al 90 per cento. Con l’abolizione dell’Ace invece cosa accadrà? Che il costo per l’uso di un euro di capitale proprio sarà esattamente pari a un euro, mentre quello dell’uso del debito bancario sarà al massimo di 0,78. E questo senza considerare il fatto che la legge delega prevede un aumento della deducibilità degli interessi passivi. Come dire, tra debito e capitale non ci sarà partita. Almeno fiscalmente parlando, converrà quasi sempre andare a bussare in banca per farsi prestare i soldi, piuttosto che scommettere in proprio. Con un ultimo corollario non da poco. Secondo l’Upb il sistema dell’Ace ha favorito molto più le piccole e medie imprese che le grandi. L’ossatura dell’industria italiana. Ma allora come nasce la scelta dell’abolizione? Nella relazione illustrativa del provvedimento viene collegata ad un principio della legge delega, quello della revisione degli incentivi. Mentre il vice-ministro Maurizio Leo ha parlato di «incompatibilità» con la normativa internazionale ed in particolare con le regole dell’Ocse. Resta il fatto che lo stop permette all’esecutivo di mettere da parte almeno un primo pezzo della dote per la riforma fiscale.

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