Nel dibattito sulle pensioni il termine più in voga negli ultimi tempi è «contributivo». Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lo brandisce come un’arma che vorrebbe utilizzare per scrostare il sistema pensionistico dai privilegi più odiosi. Il governo, che per l’autunno di quest’anno ha annunciato una manutenzione della legge Fornero per introdurre maggiore flessibilità nell’età di pensionamento, lo vede come il modo migliore per evitare che la revisione delle regole previdenziali crei sconquassi nei conti dello Stato.
Ma sia che si tratti di ricalcolare le pensioni già in essere, idea cara a Boeri, sia che si tratti di permettere il pensionamento anticipato di qualche anno ai futuri pensionati, lo strumento del calcolo interamente contributivo degli assegni potrebbe comportare tagli non indifferenti alle pensioni. Per provare a capire le cifre in gioco,
Matteo Renzi, per esempio, intervistato in una trasmissione televisiva, ha parlato di una possibile flessibilità nell’età, dando la possibilità di uscire a 62 anni (dagli attuali 66 anni e 3 mesi), mentre a parlare dell’ipotesi del ricalcolo completamente contributivo dell’assegno era stato nei giorni scorsi direttamente il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
LE SIMULAZIONI
In base a queste prime parziali indicazioni, è possibile fare qualche ssimulazione.
Se invece di un sessantaduenne, si prendesse come esempio un attuale sessantenne con 35 anni di contributi alle spalle, il taglio sarebbe pure maggiore. Anche lui, con le regole attuali, andrebbe in pensione a circa 67 anni e con un assegno di 1.494 euro al mese (sempre a fronte di un ultimo stipendio di 2 mila euro netti). Se anticipasse l’uscita a 62 anni accettando di vedersi liquidata una pensione «contributiva», dovrebbe invece accontentarsi di 1.155 euro netti al mese, con un taglio di oltre il 22%. Gli effetti del ricalcolo contributivo sono evidenti anche sui casi già oggi ammessi di pensionamento anticipato, quando cioè si è raggiunto, a prescindere dall’età anagrafica, un monte di contributi di 42 anni e sei mesi, requisito destinato a crescere di anno in anno per adeguarsi alle speranze di vita (come anche l’età pensionabile). Un lavoratore che oggi ha 58 anni e che ha iniziato a lavorare a 20 anni, avendo quindi già accumulato 38 anni di contributi, potrebbe lasciare il lavoro a 63 anni raggiungendo il requisito dei 43 anni di contribuzione massima che sarà in vigore nel 2020. Sempre supponendo che il suo ultimo stipendio mensile sia di 2 mila euro netti, con le regole attuali potrebbe andare in pensione con un assegno di 1.464 euro, mentre anticipando l’uscita a 62 anni, quindi di un solo anno, dovrebbe rinunciare al 23,5% dell’importo, accontentandosi di 1.244 euro. Dalle simulazioni emerge come la perdita media sull’assegno sia tra il 20 e il 25%. Come detto il calcolo contributivo delle pensioni è solo una delle ipotesi sul tavolo del governo per introdurre elementi di flessibilità nel sistema pensionistico.
LE ALTRE IPOTESI
L’altra possibilità all’esame del governo è quella di utilizzare la proposta di legge Damiano-Baretta, che prevede delle penalizzazioni crescenti sulla pensione legate agli anni di anticipo dell’uscita. Per ogni anno di anticipo il lavoratore dovrebbe rinunciare al 2% dell’assegno con un massimo a 62 anni quando la penalizzazione sarebbe dell’8%. Un sistema probabilmente meno penalizzante per i pensionati, ma decisamente più costoso per le casse dello Stato.